La questione delle commedie italiane
Di cinema si deve parlare, è fuor di dubbio. Certo, andando a vedere, leggere, interpretare e criticare il presente. Ma anche guardando indietro, per capire cosa sta succedendo ora. Apriamo così la rubrica Meanstreets, diretta da Christian Caliandro. E non si poteva che partire con l’“eccellenza” della produzione cinematografica nostrana.
Tutti si sono accorti dell’invasione di commedie italiane nei cinema: sono state definite “educate”, per distinguerle dalle derive sempre più scollacciate e maialesche dei consunti cinepanettoni. Un’invasione che copre quote di mercato nazionale sempre più importanti, anche e soprattutto a spese delle produzioni hollywoodiane: “Sull’onda del risultato pazzesco di ‘Che bella giornata’, ormai sopra i 41 milioni di euro, la quota di mercato relativa al cinema tricolore ha raggiunto, a gennaio, il 60 per cento. Mai successo prima. Nei prossimi mesi scenderà, attestandosi sul 35-40, che è sempre un risultato straordinario. Le cifre fanno impressione: di Zalone s’è detto, ma ci sono i 30 milioni di ‘Benvenuti al Sud’, i 22 di ‘La banda dei babbi Natale’, i 14 di ‘Maschi contro femmine’, gli 11 e passa di ‘Qualunquemente’, i 9 di ‘Immaturi’” (Michele Anselmi su Il Secolo XIX, 4 febbraio 2011).
Il successo economico è incontestabile, anche se va detto che forse un film come Qualunquemente andrebbe estratto dal gruppone, facendo categoria a sé ed essendo, più propriamente, un film d’autore. Ma cosa si cela dietro questo enorme gradimento del pubblico? La storia si trascina ormai da anni, e si può far risalire molto, molto indietro nel tempo. In principio furono il Gabriele Muccino (nel frattempo emigrato con discreto successo verso i lidi losangelini) de L’ultimo bacio (2001) e il fortunato Notte prima degli esami (2006), non a caso dello stesso Brizzi (Fausto, non Enrico) che oggi si produce nel dittico “di genere” Maschi contro femmine-Femmine contro maschi.
La struttura fondamentale di questi film recenti – se ne potrebbero citare molti altri, da Manuale d’amore, ormai alla terza puntata, a Ex (Fausto Brizzi, 2009) – prevede una “commedia degli equivoci” infarcita di elementi antropologici e di costume prelevati dalla società contemporanea. Solo che questo prelievo avviene con estrema prudenza, stando bene attenti a evitare il più possibile le criticità e le asperità, e sottolineando piuttosto gli aspetti più grotteschi e “simpatici” di determinati processi, a volte drammatici.
Benvenuti al Sud (Luca Miniero, 2010), per esempio, adattava addirittura un modulo narrativo pensato per un contesto affatto diverso (la Francia di Giù al Nord, Dany Boon, 2008) al contrasto tra Nord e Sud Italia, un tema di attualità semi-esplosiva. La comicità, obiettivamente irresistibile, veniva però fuori in quel caso dalla riscrittura in chiave moderna di stereotipi pressoché eterni dell’italianità e del carattere nazionale (o, per meglio dire, “regionale”).
Questa riscrittura, comunque, non si fa mai critica, né in questo né negli altri casi: è sempre, invece, auto-assolutoria (vedere per credere il para-generazionale Immaturi di Paolo Genovese, o Che bella giornata di Gennaro Nunziante e Checco Zalone). Mentre la società e la realtà nazionale scompaiono del tutto, dietro la cortina fumogena delle situazioni paradossali e delle risate un tanto al chilo.
Questo atteggiamento non è stato quasi mai tipico della commedia cinematografica italiana. Prendete, tanto per cambiare, uno qualunque dei film del passato che ci piacciono tanto. Che so: La grande guerra (1959), Romanzo popolare (1974) o Amici Miei (1975) di Mario Monicelli; Il sorpasso (1962), I mostri (1963) o In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi. Anche questi erano film decisamente commerciali, e alcuni erano gli antesignani dei blockbuster attuali. Anzi, il fatto stesso di essere pensati per il grande pubblico li ha esclusi per lungo tempo dall’attenzione della critica colta che – ossessivamente concentrata sugli Autori del Grande Cinema (Rossellini, Fellini, Antonioni, Bertolucci…) – non capiva che l’humus da cui provenivano gli uni e gli altri registi era il medesimo, e che gli scambi culturali e intellettuali erano all’ordine del giorno.
Il fatto, però, è che quei film graffiavano. Non c’era nessuna condiscendenza nei confronti dei vizi italici, e il carattere nazionale era sempre tratteggiato in maniera tanto precisa quanto perfida. Nonostante i protagonisti (incarnati, di volta in volta, da Gassman-Sordi-Tognazzi-Manfredi) fossero delle simpatiche canaglie, i registi mettevano implicitamente in chiaro con gli spettatori, sin da subito, che si trattava di “mostri”. E quei mostri li rispecchiavano fedelmente.
La caratteristica fondamentale, unica e inimitabile del nostro cinema è proprio questa risata amara che attraversa alcuni decenni: la capacità tutta italiana di ridere delle proprie tragedie, delle proprie scelleratezze, delle proprie miserie collettive. Di ridere persino della morte. È un’attitudine profondamente umana e umanistica. Queste poetiche non si costruiscono in quattro e quattr’otto, ma richiedono secoli di perfezionamenti successivi per comporsi e modellarsi.
Ora, torniamo per un attimo alle summenzionate commedie: vi sembra che – escluso, di nuovo, Qualunquemente – condividano con quei capolavori la stessa attenzione critica e lo stesso sguardo sardonico rivolto alla realtà e alla società del Belpaese? O non ne offrono, piuttosto, una versione consolatoria e “pacificata”, perfettamente in linea con un pensiero unico che non richiede alcuna forma di pensiero?
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati