Rachele Maistrello – Arcadia
Rachele Maistrello apre la prima stagione espositiva di Gelateria Sogni di Ghiaccio con il progetto Arcadia, che si sviluppa in due momenti espositivi: una mostra personale a Gelateria Sogni di Ghiaccio e un atto performativo a LOCALEDUE. La mostra personale si articola sotto forma di video, fotografie e installazione.
Comunicato stampa
Rachele Maistrello apre la prima stagione espositiva di Gelateria Sogni di Ghiaccio con il progetto Arcadia, che si sviluppa in due momenti espositivi: una mostra personale a Gelateria Sogni di Ghiaccio e un atto performativo a LOCALEDUE. La mostra personale si articola sotto forma di video, fotografie e installazione.
Nella video installazione Arcadia. First attempt scorrono una serie di riprese effettuate in abitazioni private della città di Bologna, in cui dei giovanissimi musicisti si allenano con i loro strumenti in goffi esercizi di melodia, accompagnati dai loro nonni.
Linea conduttrice è un fondale scenografico di volte celesti, che l’artista ha introdotto nelle abitazioni come strumento straniante e mezzo relazionale. Alla mitizzazione privata di queste scene, si contrappongono momenti in cui le volte celesti vengono utilizzate come fondale errante nei sobborghi industriali della città, spinte e attivate dalla presenza di due giovani teenager.
Nell’installazione Arcadia. Second attempt degli adesivi da parete tratti dalla simbologia scientifica, che schematizzano reazioni stellari, si relazionano a fotografie analogiche di piccolo formato, in cui si colgono gesti minimi di sospensione che l’artista fotografa all’interno della sua abitazione.
Arcadia. Third attempt si compone di due fotografie analogiche di medio e piccolo formato in cui la presenza umana viene meno. La scenografia viene smantellata e le sue componenti installate in un ambiente naturale all’alba, sulla cima di uno dei calanchi del Parco Regionale dei Gessi Bolognesi. La costruzione dell’immagine diventa così un atto fisico in cui il raggiungimento della vetta sorregge lo slancio verso l’icona.
Arcadia è un’operazione di riscoperta delle private eroicità e delle ombre simboliche nell’immaginario comune.
Dialogo con l’artista a cura di Giovanni Rendina
Solo di recente hai aggiunto l’uso del video accanto alla fotografia. Cosa ti ha spinto a questa estensione e qual è lo scarto tra le due pratiche in Arcadia?
Tutto è iniziato durante a Hero’s life, quando certe situazioni che accadevano prima dello scatto erano così vitali e improbabili che ho sentito il bisogno istintivo di raccoglierle in dei video col mio cellulare.
Nonostante abbia deciso in seguito di tenerle come scarti in un piccolo sito di backstage, spesso ci tornavo e notavo come avessero qualcosa di leggero e di molto diverso dalle fotografie di cui si componeva l’opera finale.
Mentre le fotografie avevano un tempo più lento, dilatato, quasi fossero dei portali verso una dimensione e uno spazio altro, nei video la distanza si accorciava, la realtà si mostrava in modo più immediato e veloce, e portavano a una tensione diversa, più domestica.
Ho dunque iniziato a ragionare su come questi due linguaggi potessero intrecciarsi tra loro, lavorare insieme verso una terza dimensione di congiunzione nello spazio espositivo.
In Arcadia i video sono dei “prelievi” di altre dimensioni, cercano di assorbire il tempo delle case in cui sono entrata e dei luoghi di periferia in cui si muovono le due ragazzine, sono una sorta di aperture senza filtri verso altri mondi, è per questa ragione che il montaggio è stato quasi escluso, e la luce è totalmente naturale e non mediata da fonti artificiali.
Le fotografie sono invece delle serrature che si modificano a seconda della chiave interiore di chi guarda, non sono portatrici di un tempo preciso, il luogo e lo spazio sono elastici e più morbidi, più malleabili.
I due tempi e attitudini di questi linguaggi così diversi si intrecciano nel vuoto che creano tra di loro, tendendo verso una memoria mediata e ricostruita.
La viseo installazione Arcadia. First attempt ti ha portata ad entrare nelle case di molte persone, collezionando momenti di intimità sui quali, come artista avevi un controllo molto limitato. Cosa ti interessa di queste situazioni relazionali, che si sono sviluppate quasi come happening?
Lavorare con delle persone reali e non, ad esempio, degli attori o dei performer professionisti, porta inevitabilmente ad avere a che fare con l’errore, la mancanza di controllo e la stonatura.
Mi interessava lavorare con una situazione precisa, in cui due età agli antipodi, insieme, riescono a creare una specie di bolla che si stacca dal tempo interiore e dalle contingenze: una parentesi che prescinde dagli obblighi, dalle aspirazioni reali o da ciò che il futuro riserverà. E’ un momento quasi mitico, che, spesso, durante la vita si trasforma all’interno della memoria. Lavorare con un’immagine simile e filmarla nel quotidiano dona alla stonatura una nuova forza, abbassa l’archetipo e allo stesso tempo, tramite i corpi celesti nello sfondo e i loro ribaltamenti in carri nell’adolescenza delle due ragazzine, cerca di elevare il quotidiano senza falsificarlo.
La linea conduttrice in quest’opera è un fondale scenografico di volte celesti dalla forte connotazione pop. Che cosa ti ha condotta a questo tipo di estetica e quale impatto ha sul tuo lavoro?
Il fondale della via lattea preso dalla Nasa, nonostante sia sublimato da un estetica patinata e comune, è comunque un simbolo antico. Mi interessa lavorare con i simboli nella loro nuova forma di tutti i giorni.
L’abuso di certe immagini racchiude un legame ad un’iconografia che cambia veste ma non contenuto. Da Tropici cerco di lavorare con l’immaginario delle persone, senza giudizio. Le palme davanti a un mare azzurro o delle galassie brillanti nel cielo stellato sono delle immagini che le persone cercano costantemente e di cui non si stufano, nonostante il loro abuso e sfruttamento, perché l’idea dell’eden e dell’universo fuori dal conoscibile toccano dei nuclei antropologici profondi.
Nell’allestimento della mostra hai avuto carte blanche. Non vi è quindi nessuna voce curatoriale, se non quella dell’artista. Possiamo considerare Arcadia come un’unica opera d’arte, costruita assemblando diversi significati?
Arcadia è un’unione di opere dipendenti l’una dall’altra, è una serie di tentativi in dialogo tra loro per confrontarmi con un immaginario archetipico e destrutturarlo. Se è vero che non c’è nessuna voce curatoriale, è vero anche che Filippo e Mattia non mi hanno solo invitata a usare lo spazio, ma hanno seguito personalmente la fase di produzione. Durante i giri in macchina in cerca di luoghi dove girare, o nella fase pratica dell’allestimento si è creato un dialogo silenzioso e per questo efficace, che invece di muoversi a priori seguendo una linea teorica si è mosso attraverso una sequenza di soluzioni, domande e cambiamenti spontanei e sinceri, che mi hanno guidata nella costruzione della mostra.