L’era della stupidità, parte II
Il “sistema dell’arte” è sempre più ripiegato su se stesso. E l’arte contemporanea sembra divenuta incapace di guardare fuori dal proprio microcosmo, condannandosi così, irrimediabilmente, all’irrilevanza. Esiste una via d’uscita? La seconda puntata di una riflessione in progress di Christian Caliandro sull’arte del presente.
“Ogni lingua che non rifletta le condizioni reali di un ambiente,
di una cultura, e si congeli in qualsiasi modo, per pregiudizio
e retorica, perde le proprie funzioni, trasformandosi in convenzione
priva di senso, perde ogni autorità e in poco tempo sparisce.”
Emilio Villa
“Uomini piccoli non possono darci una grande letteratura,
e infatti non la stanno dando.”
Giuseppe Genna
A Francesco
Facciamo il punto della situazione. Lo scopo di Inpratica, e in fondo di tutta Artribune (con declinazioni e modalità diverse, come è giusto) è sempre quello di allargare lo spettro della riflessione, la cornice di riferimento, per così dire. Di individuare finalmente il “fuori” dal recinto in cui l’arte contemporanea si è costretta da un trentennio circa. Di esorbitare.
La frase di Genna si può adattare tranquillamente, senza alcuna modifica, agli artisti e al mondo dell’arte: “Piccoli uomini non possono darci una grande arte, e infatti non la stanno dando”. Mentre tutti – o quasi tutti – si concentrano infatti sulla prossima mostra, sulla prossima curatela, sulla prossima fiera, sembrano proprio perdere di vista i fondamentali. L’aspetto umano di tutta la faccenda. Lo dice anche un insospettabile come Charles Saatchi: “Fino a poco tempo fa credevo che qualsiasi cosa potesse allargare l’interesse nell’arte contemporanea dovesse essere la benvenuta; soltanto uno snob elitista vorrebbe vederla confinata all’attenzione di pochi aficionados all’altezza. Ma persino un narciso egoista e spaccone come me trova questo nuovo mondo dell’arte profondamente imbarazzante” (in The hideousness of the artworld, The Guardian, 2 dicembre 2011).
Se, infatti, tutta la mia esistenza si svolge e si concentra all’interno del “sistema” (termine inquietante e minaccioso nelle sue implicazioni, scelto e adottato una volta per tutte non a caso…), sulle sue convenzioni e sulle sue dinamiche che non vengono mai messe in discussione; se il pensiero di fondo è: “queste sono le condizioni che ho trovato, a partire dalle quali mi devo muovere e con le quali mi devo sempre confrontare: non ho tempo né voglia di discuterle, di provare a cambiarle – men che meno di sovvertirle radicalmente”, allora la dissociazione è veramente completa.
A tal punto la realtà esterna è esclusa, da scomparire del tutto alla vista e alla percezione. L’unico contesto di riferimento diventa ed è “il mondo dell’arte”. Le uniche relazioni sono quelle costruite e sviluppate al suo interno. I soli eventi accadono in questo mondo. Le occasioni nascono e muoiono in questo microcosmo.
È un modo, legittimo come ogni altro, di comportarsi e di condurre la propria vita; solo che, poi, pretendere che vengano fuori ‘capolavori’ da questo tipo di approccio, che le opere prodotte in questo ecosistema culturale e sociale siano ‘grandi’ e ‘importanti’, è semplicemente ridicolo, infantile, pretestuoso. Perché si perde di vista, appunto, l’essenziale: ogni opera prodotta fuori dalla relazione con la realtà si condanna da sola all’impermanenza e all’irrilevanza. È finzione, evasione, fuga. Quindi, non vale niente – perché non spiega il mondo, e tantomeno ne inventa uno credibile (al massimo, lo mutua da altre produzioni).
A dimostrazione di ciò, basta pensare a molta letteratura di oggi, non solo straniera ma anche e soprattutto italiana. Qual è il tentativo fondamentale, in molti casi riuscito? Sfondare il muro della finzione con i mezzi della finzione, attingere e trasmettere il nucleo oscuro – indicibile, inconoscibile – della realtà. Della storia. Dell’identità collettiva. Esempi? La trilogia degli ‘Underworld USA’ (American Tabloid, 1995; Sei pezzi da mille, 2001; Il sangue è randagio, 2009) di James Ellroy. Dies Irae (2006) e Italia De Profundis (2008) di Giuseppe Genna. Il tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta. Le rondini di Montecassino (2010) di Helena Janeczek. Un qualunque libro di Antonio Moresco.
Con molta fatica e qualche passo falso – dovuti quasi certamente alla sua natura più industriale e commerciale, legata inevitabilmente alle logiche e agli standard mainstream – il cinema (non quello italiano, purtroppo, per ora…) sta provando a compiere un tragitto analogo. A rilanciare in un modo simile, dicendo la verità dall’interno della finzione: Shutter Island, The Ward, Inception, Source Code, Drive sono, di fatto, costruzioni narrative metafisiche.
Quale giustificazione si può trovare all’arretramento dell’arte contemporanea? Semplificando parecchio, si può dire che, fino a un certo punto, l’arte ha seguito il percorso dell’introspezione e dell’autoanalisi linguistica (Hegel > Greenberg > Fried). Ma poi, in questo processo di emancipazione si è come incartata; è rimasta avvitata su se stessa e intrappolata in un discorso solipsistico.
Questo, per quanto riguarda la parte, per così dire, “alta & nobile”. La sequenza della formazione storica, relativa al ‘sistema dell’arte’ degli ultimi 30 anni, ci mostra invece molto chiaramente che questo avvitamento coincide con la progressiva separazione e dissociazione dal mondo esterno. Dal resto della società.
Per essere grandi artisti occorre prima, e insieme, diventare grandi uomini: e i grandi uomini non appartengono a nessun ‘sistema’.
Christian Caliandro
LEGGI ANCHE:
L’era della stupidità, parte I
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati