Musealizzare la fotografia
Un Museo della Fotografia per la Capitale? L’ipotesi è stata presentata pochi giorni fa in un convegno e le possibilità che sorga davvero sono buone. Come spazio autonomo oppure come dipartimento specifico del Macro. Daniele De Luigi ripercorre la storia dei musei di fotografia e si interroga sul loro ruolo nella contemporaneità.
Corre l’anno 1930 quando il Museum of Modern Art di New York inizia a collezionare fotografie, e il 1940 – giusto un secolo dalla nascita del mezzo – quando decide di assegnarle un proprio dipartimento. Il primo museo dedicato interamente alla fotografia viene invece fondato nel 1949, non a New York ma nell’omonimo stato, a Rochester: la George Eastman House, che è ancora oggi una delle istituzioni leader del settore.
Sono gli anni del trionfo del modernismo fotografico, l’epoca in cui la fotografia, perseguendo tenacemente la strada di un’orgogliosa autonomia espressiva ed estetica, riesce a ritagliarsi il proprio spazio (per quanto sempre piuttosto marginale) nel sistema istituzionale dell’arte. Negli anni Sessanta qualcosa comincia a cambiare per lo status del medium. Nel 1964 il direttore del dipartimento di fotografia del MoMA, John Szarkowski, realizza la mostra The photographer’s eye, che due anni dopo diventerà un una sorta di libro-manifesto del nuovo linguaggio come arte indipendente, segnandone forse l’apogeo. Un anno dopo, nel 1965, Joseph Kosuth realizza la sua opera One and three chairs, con cui inizia la decostruzione dell’immagine fotografica e la sua messa in crisi come sistema autonomo di significazione. Nel periodo che segue fioriscono altri luoghi istituzionali per la fotografia, tra cui la Photographers’ Gallery a Londra (1971), l’ICP a New York (1974), i dipartimenti dei Musei Folkwang e Ludwig (1979), che negli anni hanno saputo cogliere, e in alcuni casi arrivare a guidare, la sfida del cambiamento già in atto.
Un periodo che vede anche sorgere una distinzione, quella tra “fotografo” e “artista che usa la fotografia”, che avrebbe iniziato a incrinarsi solo tra la fine degli anni Ottanta e l’alba dei Novanta (con il boom del mercato della fotografia, l’emergere di protagonisti come i tedeschi della scuola di Dusseldorf, Jeff Wall, Nan Goldin, e la nascita di numerosi altri musei, tra cui in Europa annoveriamo l’Elysée di Losanna, il Fotomuseum di Winterthur, la Maison Europeénne de la Photographie a Parigi), fino a sgretolarsi e solo di recente a perdere di significato. Oggi la fotografia, che ha sviluppato negli anni molteplici identità formali e concettuali, è onnipresente, e ha assunto una tale centralità nell’arte contemporanea che questa non è di fatto pensabile senza di essa.
A questo punto, pare inevitabile domandarsi il senso di istituire un “Museo della fotografia” oggi, nel secondo decennio del XXI secolo, dopo che la fotografia è uscita dal recinto e tutti i musei di arte contemporanea la ospitano e la rappresentano. Un senso ancor più stringente assume la domanda se questo museo lo si vuole fondare nella capitale di un paese come l’Italia, che nel secolo scorso non ha saputo né voluto dare vita a una propria significativa esperienza in questa direzione. Il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo è nato dopo un lungo parto nel 2004, e unico caso in Italia ha avuto il coraggio di porsi proprio questa domanda sul perché di un museo della fotografia in un’epoca in cui si parla di post-photography. Domanda attualissima, tanto che proprio quest’autunno il Museo Foam di Amsterdam ha avviato una piattaforma di discussione dal titolo What’s next? che affronta questi temi, non ultimo quello del futuro del museo di fotografia.
Eppure, a dispetto delle apparenze, i motivi per rispondere positivamente non mancano. Perché la fotografia mantiene una propria specificità concettuale che modifica e condiziona sia la sua stessa evoluzione, sia quella delle forme d’arte e comunicazione in cui penetra, e per questo va costantemente indagata con gli strumenti appropriati. Perché ha una propria storia che è di importanza assoluta per la storia della cultura e delle arti, ed è ancora ampiamente misconosciuta e frammentaria. Perché se è vero, come è vero, che la fotografia (la fotografia tout court) è un elemento chiave della civiltà contemporanea, e che i musei internazionali di fotografia stanno godendo di un momento estremamente brillante e proficuo, potrebbe non essere ancora troppo tardi perché l’Italia faccia un po’ di più la sua parte sullo scenario globale. A patto, certo, di saper immaginare una nuova idea di museo della fotografia, frutto di una profonda riflessione sui mutamenti non solo della fotografia stessa, ma dell’arte contemporanea, della funzione del museo e del ruolo della cultura visiva nella società.
A patto che sia in grado di stimolare la cultura fotografica, la formazione e l’educazione. Di creare mostre trasversali (nel tempo e nei contesti) che generino prospettive nuove. Di interrogare il mezzo e i suoi continui spostamenti. Di inventare motivi nuovi per giustificare la propria esistenza. Insomma, basta che non sia un museo novecentesco della fotografia, che si limiti a conservare e mostrare, rimettendolo in gabbia, ciò che oggi ha il diritto di stare in un qualunque museo d’arte. E che non sia un museo retrospettivo, che della fotografia mostri al pubblico la salma imbellettata, mentre altrove si assiste alle sue spettacolari trasformazioni.
Daniele De Luigi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati