Raccontare il successo. Intervista a Philip Rylands
Risale a pochi giorni fa l’annuncio delle sue dimissioni dall’incarico di Direttore della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, il museo di arte moderna e contemporanea più visitato in Italia. Philip Rylands ha riavvolto per noi il filo cronologico della sua carriera.
Dall’ingresso come amministratore in una delle collezioni più celebri al mondo all’incarico direttivo ottenuto nel 2000, sono tanti gli step compiuti da Philip Rylands nell’ambito dell’istituzione veneziana intitolata alla famosa mecenate statunitense. A una manciata di mesi dalla conclusione della sua vicenda professionale al servizio della Collezione Peggy Guggenheim, il direttore uscente ha tirato le somme di una carriera vissuta sull’onda dell’entusiasmo e della dedizione al proprio mestiere.
A fronte della sua decisione di lasciare il duplice incarico di Direttore della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e di Direttore per l’Italia della Fondazione Guggenheim, mi piacerebbe fare con lei un viaggio a ritroso nel tempo, alle origini della sua carriera presso la Collezione. Vuole raccontarci come tutto ebbe inizio?
Peggy Guggenheim ha donato palazzo e Collezione alla Fondazione dello zio nel 1976. Lei mantenne l’usufrutto fino alla sua morte, che si verificò nel periodo di Natale del 1979. In quell’occasione il Guggenheim di New York aveva bisogno di qualcuno a Venezia che prendesse in mano una collezione di arte moderna in un particolare stato di conservazione e una casa che recava i segni del tempo. Si partiva da zero e si dovevano trovare i fondi. Durante i primi anni, con la Fondazione Guggenheim diretta da Thomas Messer alle mie spalle, abbiamo lavorato per trasformare la casa in un museo e questo ha significato mettere a punto un progetto architettonico, un impianto di illuminazione e climatizzazione, elementi tecnici che prima non c’erano. Significava anche restaurare le opere. La prima attività che abbiamo compiuto, e che risultava un po’ inedita nel 1980-81, è stato uno studio dello stato di conservazione di tutte le opere del museo, divise fra opere su carta, tele e sculture, prendendo coscienza del loro stato. Tutta questa operazione aveva come obiettivo la conservazione delle opere stesse, e ciò implicava, ad esempio, l’introduzione di finestre a doppio vetro e di un impianto di allarme e antincendio.
Poi cosa successe?
Permanevano dei grossi problemi logistici, quindi, alla fine degli Anni Ottanta, in collaborazione con la Fondazione Levi di Venezia e con il suo direttore Giorgio Busetto, decidemmo di prendere in affitto gli edifici dietro la casa di Peggy. Questa scelta ci ha dato l’opportunità di crescere in maniera gradevole, risolvendo il problema della bigliettazione, del guardaroba, e una serie di aspetti semplici, ma fino ad allora problematici. Nel 1995 abbiamo aperto il primo caffè-ristorante in un museo italiano e ci siamo dotati di spazi per mostre temporanee, prima impossibili senza togliere dall’esposizione la Collezione di Peggy. Una dicotomia validissima al fine del nostro successo è stata avere la collezione permanente esposta anche durante le mostre temporanee, innescando spesso un dialogo fra le due. Oggi abbiamo sei giardini di scultura, due negozi, il caffè e ristorante, spazi espositivi di cui possiamo essere fieri. Fra poco tempo disporremo anche di un luogo di accoglienza per le opere d’arte, dove le casse potranno arrivare ed essere movimentate in modo professionale. Questa crescita è stata accompagnata da un graduale aumento del numero dei visitatori.
Che cosa ha significato per lei, nel momento in cui è diventato direttore della Collezione, prendere in mano le redini di un patrimonio così composito? E quali strategie ha adottato per salvaguardarlo e promuoverlo?
Salvaguardia e promozione, sì. Parte della nostra missione è quella di educare, conservare e studiare. Una specie di appendice a tutto ciò sono la promozione della memoria e lo studio della vita di Peggy Guggenheim. Questo elemento è stato sempre in primo piano nella nostra strategia. Negli anni ho appreso la qualità della Collezione, mentre quest’ultima si storicizzava. Ho imparato il grande valore delle scelte di Peggy. Promuoverne la Collezione ha sempre giocato a nostro vantaggio grazie alla sua qualità, al suo fascino e a quello della vita di Peggy Guggenheim stessa, come evidenziato dal film di Lisa Vreeland, che contribuisce alla mitizzazione di Peggy. Mi ha divertito anche la biografia recentemente pubblicata da Yale University Press da un certo Francine Prose, inserita nella collana Jewish Lives che include anche le vite di Einstein, di Mosè. Peggy è nell’Olimpo [ride, N.d.R.].
Lei conosceva personalmente la famiglia Guggenheim nel momento in cui è entrato a far parte dello staff della Collezione?
Conoscevo Peggy, il figlio Sindbad e la sua famiglia. Nelle ultime settimane di vita di Peggy, quando lei era ricoverata presso l’ospedale di Camposampiero, andavo con il figlio a trovarla, eravamo amici. E nei primi giorni in cui stava avvenendo la transizione fra Peggy ormai scomparsa e la struttura di New York, io ho supportato Sindbad, ho trovato per lui un avvocato che ha svolto l’inventario della Collezione e che aiutava Sindbad nei suoi rapporti con la Fondazione Guggenheim. Poi c’è stato l’invito rivoltomi dalla Fondazione a seguire la riapertura della Collezione qui a Venezia nell’aprile del 1980. L’ho fatto con l’aiuto di mia moglie, non c’era alcun personale.
Questo legame di amicizia con la famiglia Guggenheim ha quindi agevolato il suo lavoro?
Sì, ha aiutato a creare un legame di continuità, soprattutto agli occhi di New York. Conoscevo la Collezione, la famiglia, la città, parlavo italiano, avevo lavorato con il comitato inglese per la salvaguardia di Venezia Venice In Peril. Ero giovane, ma ho capito cosa c’era da fare e sono rimasto sempre qui.
La sua carriera è stata ed è particolarmente intensa. C’è qualche episodio che ha segnato il suo lavoro presso la Collezione?
Nel 1988 cambiò la direzione della Fondazione a New York, Thomas Messer cedette il posto a Thomas Krens. Nell’89 girammo Venezia e la Laguna insieme in cerca di un’altra sede per un altro museo Guggenheim e a un certo punto sia il sindaco sia la soprintendente di allora ci proposero la Punta della Dogana. La storia è molto lunga, ma posso dire che fu il nostro avvocato, alla metà degli Anni Novanta, a fare in modo che la Punta della Dogana passasse dal Demanio al Comune di Venezia per 99 anni in maniera gratuita, a condizione che diventasse un museo. Questo avvocato e uomo di straordinaria qualità, Alessandro D’Urso, padre di Mario D’Urso, dedicò gli ultimi dieci anni della sua vita a trasformare la Dogana in un museo Guggenheim.
E poi cosa impedì che questo avvenisse?
Ci fu una lunga trattativa affinché il Comune subaffittasse a noi Punta della Dogana, poi a un certo punto la situazione della Guggenheim cambiò radicalmente. Sul fronte veneziano avevamo fatto grandi passi avanti nel nostro ampliamento, il museo aveva più capacità di programmazione. Inoltre, se nel 1989 quello di Venezia e quello di New York erano gli unici due musei della costellazione, nel 1997 aprirono sia Berlino che Bilbao, poi c’era Las Vegas in arrivo, poi Soho, quindi la necessità strategica di avere un’altra sede a Venezia venne meno. Ben venga dunque il fatto che un deus ex machina come Pinault sia arrivato e abbia preso la questione in mano, restaurando magnificamente la Punta della Dogana e facendo mostre di arte contemporanea.
Quali sono i limiti e le potenzialità della Collezione Guggenheim in un contesto come quello di Venezia?
Fin dall’inizio la nostra debolezza è stata lo spazio. Ancora oggi risulta essere un problema, anche se ultimamente abbiamo vinto diverse piccole sfide con l’apertura del nuovo caffè e la trasformazione degli ambienti del vecchio. Lo spazio è sempre stata una restrizione ma anche una sfida a crescere. Il museo ha avuto sempre un assetto giuridico privato e questo ha garantito una certa agilità, avendo alle spalle la professionalità già precostituita della Fondazione Guggenheim di New York. A differenza dei musei pubblici, noi godiamo sempre i frutti del nostro successo. Quando raccogliamo i fondi in maniera proficua, questi soldi vengono subito reinvestiti nel museo, mentre forse nelle amministrazioni pubbliche non è così semplice. Non è una banalità: tutto lo staff si motiva se può identificarsi, attraverso questo investimento immediato, nel proprio museo. L’identificazione dello staff che lavora con passione nasce da tale assetto giuridico privato.
Come vede la situazione dell’arte contemporanea a Venezia? Quanto peso può avere, secondo lei, il contemporaneo e quali sbocchi, vista la situazione molto fragile della città sotto vari aspetti?
Sicuramente la cultura delle arti visive contemporanee è una possibile soluzione per il futuro di Venezia, mentre la città si svuota di uffici pubblici e diventa sempre meno capitale amministrativa della regione. La città è piccola e l’humus di collezionisti, artisti e galleristi è un po’ debole. Non che non ci siano ottime gallerie qui o che artisti validi non vivano in città, ma quell’humus di cultura, fatto di caffè in cui oggigiorno si uniscono i Picasso, i Giacometti e i Matisse di una volta, non c’è e quindi la cultura delle arti visive galleggia un po’ sulla superficie delle cose. La Biennale è esemplare, fa un ottimo servizio all’economia ma è passeggera. Però è positivo il fatto che esistano fenomeni come la Fondazione Pinault, la Fondazione Prada, la Fondazione Vedova, l’Espace Vuitton. La vita sta crescendo all’interno delle fondazioni private ed è fantastico. Quindi la città diventa sempre più meta di alta cultura, che controbilancia la bassa cultura del turismo purtroppo ben presente a Venezia.
L’annuncio delle sue dimissioni ha spiazzato il pubblico di addetti ai lavori e non. Dove la rivedremo in futuro? Resterà in Italia o sceglierà un’altra destinazione?
Tutte le possibilità sono aperte, non ho programmi per ora. Mi sento molto veneziano, ho vissuto qui per più di quarant’anni.
Tempo di bilanci. C’è un risultato ottenuto dalla Collezione che l’ha soddisfatta in maniera particolare?
Tra le cose che mi hanno soddisfatto di più c’è l’attività didattica, che ci ha consentito di rendere meno effimera la presenza delle scolaresche nel museo. A Scuola di Guggenheim, all’inizio degli Anni Novanta, è stato un progetto realizzato raggiungendo gli insegnanti nelle aule. Abbiamo creato una forma di didattica per il Veneto che ha reso grandissimi frutti. Ora il nostro programma è molto articolato e include un progetto su tutto il territorio per le scuole primarie in collaborazione con OVS, che ha coinvolto ben un milione e 400mila bambini.
La vostra attività sul fronte della didattica è stata pionieristica. Molte altre istituzioni hanno guardato a voi come un punto di riferimento.
Eravamo i primi con A Scuola di Guggenheim e l’anno prossimo festeggeremo i 25 anni di Intrapresæ Collezione Guggenheim, la nostra forma di associazione per le aziende. Inoltre siamo il primo museo in Italia di arte moderna come numero di visitatori. Internalizziamo il successo del museo, ne diventiamo stakeholder.
Nei prossimi mesi prenderà il via la ricerca del suo sostituto. Quale consiglio si sente di dare al suo successore?
Mi auguro innanzitutto che sarà capace di lavorare in armonia con lo staff attuale. Quindi il mio massimo consiglio è di capire il valore del personale del museo.
Arianna Testino
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