Con occhi diversi. Burri, Samorì e Witkowski a Padova
Palazzo del Bo, Padova – fino al 15 marzo 2017. Dopo le esposizioni realizzate al Teatro Anatomico de Waag di Amsterdam (Gare du Nord) e al Teatro Anatomico dell’Archiginnasio di Bologna (Gare du Sud), Gare de l'Est raggiunge l'Ateneo patavino. Insieme a tre protagonisti d’eccezione.
Resta un’immagine: il sé scompare per riapparire forte e tenace nella visione di cui ciascuno è autore, complice dello sguardo altrui e del caos che sta fuori. Tacito ha messo ogni percezione allo specchio già da tempo: “Fingunt simul, creduntque”. Aldous Huxley parla di irruzione dell’io e di prevalenza soggettiva nel semplice processo della visione. Occorre guardare il presente e se stessi a distanza, da un punto di vista diverso, per vedere in modo inaspettato, per non essere soggiogati dal rumore che c’è intorno. Con occhi diversi, insomma. Occhi estranei. Huxley è convinto che i problemi visivi siano dovuti ad un io invadente. Dimenticando/si, nuove e affascinanti visioni si aprono davanti agli occhi, come guardando da un cannocchiale rovesciato o da un teatro anatomico. Gare de l’Est è una mostra che osserva da vicino, un’autopsia del guardare, un invito a recepire la distanza e la sostanza necessarie al vedere. Il tema del progetto espositivo, curato da Chiara Ianeselli, deriva dalla lettura del De visione di Girolamo Fabrici d’Acquapendente del 1960, in cui si trovano rappresentazioni dell’occhio che ricordano la struttura del teatro.
TRE ARTISTI, TRE SGUARDI
Nella Cucina di Palazzo del Bo dell’Università di Padova sono ospitati tre lavori: a parete un Cretto, candido, arido e screpolato, di Alberto Burri proveniente dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, al centro il meccanismo oculare dell’atlante di Gustave Joseph Witkowski, del 1880, sull’altra parete Primo Bianco, una cornice marmorea che si riversa in scultura di Nicola Samorì.
Accanto alla Cucina, il Teatro Anatomico dell’Ateneo, inaugurato nel 1595, è il più antico teatro anatomico a oggi conservato. Ha la forma di un cono rovesciato. Sotto, a livello del pavimento, era collocato il banco dove veniva posto il cadavere su cui eseguire le dissezioni. Un dipinto quando muore diventa una scultura? Con questo interrogativo di Nicola Samorì, lo sguardo, sbieco, si eleva verso Lucy, scultura densa dell’artista, in marmo bianco e scheggia lunare, protesa verso la luce dello spazio ellittico. L’opera di Samorì so/spira, al termine del girone, come Galileo all’inizio del Seicento davanti alla Luna.
Federica Bianconi
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