Palestina chiama Roma. La lettera di Maria Rosa Sossai
La lettera 28, indirizzata a Driant Zeneli e a Valentina Bonizzi, è stata scritta dal collettivo ALAgroup, che ha condiviso con gli artisti la loro residenza a Deheishe, refugee camp di Betlemme, nell’ambito del progetto Campus in Camps.
Cari Driant e Valentina,
prima di tutto vogliamo dirvi grazie per averci dato la possibilità di accompagnarvi, anche se a distanza, nella vostra esperienza in Palestina. La prima cosa che ci siamo domandati quando ci avete chiesto di curare la vostra residenza a Deheishe è stata: “Cos’è un atto curatoriale? Può essere un’azione a distanza? Come possiamo contribuire al vostro lavoro in Palestina?”. Sin dall’inizio, quindi, la relazione con voi e con quello che vi attendeva sono state al centro della nostra attenzione. Mettere in atto un processo artistico è un gesto carico di significati che spesso si stratificano in profondità. Un modo per far emergere questi significati è pensarli al di fuori dell’esperienza che si sta vivendo. ALAgroup vi ha offerto uno sguardo esterno, discutendo e condividendo un processo artistico ed esistenziale. All’inizio le riflessioni erano “domande legittime”, come le definisce Armellini, cioè senza una risposta. Quest’ultima infatti era da ricercare nella vostra esperienza.
Anche se non abbiamo stretto la mano alle ragazze e ai ragazzi provenienti dai diversi refugee camps con i quali avete lavorato a Deheishe, eravamo idealmente lì. Le conversazioni via Skype, con voi stanchi dopo lunghe e calde giornate, erano chiacchiere informali ma anche riflessioni critiche. Abbiamo sentito allora il bisogno di mettere in pratica la tensione mentale che percepivamo, una vera e propria emergenza che scaturiva dall’ipotesi Fluxus che siamo tutti artisti, e tutto può essere arte. Ne abbiamo parlato insieme ed eravate entusiasti. Allora, mentre voi invitavate i ragazzi a prendersi cura dei luoghi in cui vivono, seguendo inclinazioni e desideri individuali, abbiamo deciso di prenderci cura di uno spazio, all’interno di un processo di self learning.
Tradurre in azione questo processo ci è apparsa la decisione più giusta e piazza Vittorio, a Roma, lo spazio ideale. Opposto ma simile al refugee camp, il giardino di piazza Vittorio ben rappresenta il Mediterraneo e tutte le sue contraddizioni. Un luogo aperto, diversamente dal campo, ma con aree separate da confini invisibili. La secentesca porta alchemica, che custodisce ancora alcuni dei suoi segreti, è il centro di un mondo multietnico, multiculturale e poliedrico. Tante persone, che provengono da nazioni diverse, si incontrano tutti i giorni nel giardino, tante anime che coesistono ma che rimangono separate. Abbiamo voluto legarle insieme, con un unico nastro, come fece Maria Lai a Ulassai, durante la sua performance Legarsi alla montagna del 1981. Nel corso della visita al Museo di Betlemme avete ragionato con i partecipanti sull’idea corrente di museo e vi è parso un contenitore esausto. Parallelamente a Roma abbiamo attraversato il giardino di piazza Vittorio immaginando il museo come un atto rivoluzionario che si genera nei luoghi quotidiani, nei luoghi di vita, e permette alle opere di tornare a essere un processo vivo del tempo presente. Il museo è diventato uno spazio d’azione dove la realtà non è tenuta fuori, il contesto non viene epurato e il tempo fluisce.
Maria Rosa Sossai
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