La nuova Galleria Nazionale di Roma. L’opinione di Gian Maria Tosatti

Continua il dibattito sul nuovo corso dell’istituzione capitolina. Stavolta la parola passa a Gian Maria Tosatti, sostenitore di una “posizione in controtempo”.

Scrivo in controtempo, ma scrivo. Scelgo di scrivere un articolo su una rivista e di non consegnare le mie impressioni a una bacheca social perché tengo a mettere nero su bianco ciò che ho da dire sul riallestimento dell’ex Galleria Nazionale d’Arte Moderna, oggi divenuta solamente Galleria Nazionale. Lo faccio con questo ritardo perché solo stamattina, tornato dagli Stati Uniti per la mia mostra napoletana e per le feste, ho potuto vedere il museo riaperto. Ero a New York quando su questo riallestimento si è alzato fuoco di batteria, e devo dire che, pur senza essermi mai espresso a riguardo (conscio del fatto che ogni critica si esprime solo dopo aver fatto l’esperienza dell’oggetto in questione), avevo condiviso le perplessità sul metodo adottato dalla nuova direttrice Cristiana Collu. A onor del vero, queste pagine hanno ospitato una mia glaciale bocciatura senz’appello della Biennale di Okwui Enwezor proprio in funzione di simili scelte metodologiche che avevano soppresso le didascalie e che me l’avevano fatta bollare come la più borghese delle Biennali di Venezia che la storia ricordi e quindi la più ipocrita sul piano ideologico (visto lo statement del curatore) e la più disfunzionale sul piano – quello sì profondamente democratico e popolare – della comprensione e partecipazione del pubblico.

DIDASCALIE, LE ASSENTI GIUSTIFICATE

Con queste premesse era facile immaginare che la mia opinione sul nuovo corso della galleria che fu la casa della sempre compianta Palma Bucarelli potesse essere riassunta in un fascio di saette. Ma, fortunatamente, sono un artista, cioè qualcuno che con sensibilità osserva e si lascia sorprendere da ciò che vede. E così oggi ci tengo a lasciare traccia di una mia impressione, pur conscio del fatto che essa attirerà su di sé una valanga di strali dai tanti amici che si sono già espressi e che pure stimo e per cui provo affetto. Ma loro lo sanno già, simpatico non lo sono mai stato – a nessuno –, onesto, invece, cerco d’esserlo sempre, e così esco dal coro affermando che quella cui ho assistito in questa mite mattinata dicembrina è una delle più straordinarie esperienze museali di cui abbia memoria. Cristiana Collu compie un’operazione assai diversa dall’eliminare le didascalie e la parte storiografica dell’esperienza museale. La sua curatela rende tutto questo semplicemente inutile. Comprendo che sia difficile da capire mettendolo brutalmente in parole, ma nei fatti è così. L’esperienza che ci propone non è un impoverimento del contesto museale, ma una sua evoluzione, una sublimazione, in cui il concetto di “scrittura” esce rafforzato. È una misurata e consapevolissima scrittura visiva quella che rende l’attraversamento della Galleria una pura esperienza estetica che abbatte la necessità di mediazione tra visitatore e opera, compiendo il piccolo miracolo che è la pietra filosofale non solo del curatore, ma dell’artista stesso, talvolta. Nell’equilibrio perfettamente bilanciato di assonanze contestuali e alchemiche che tengono in piedi il delicatissimo castello di carte di questo allestimento, ogni opera arriva agli occhi del visitatore allo stato di immediata solubilità. Non c’è più bisogno di parole, di inquadrare l’opera nel suo contesto storico o artistico, essa si mostra per quel che è, nella sua intima realtà, in una dimensione trans-temporale che è l’unica dimensione possibile per le opere d’arte. Giotto non è un gigante in relazione alla sua epoca e alle tecniche pittoriche allora in voga, come affermò un giorno davanti a me Lawrence Wiener, egli è piuttosto, prima di tutto, come diceva De Dominicis, un vero artista proprio perché col suo lavoro produce quella commozione, quell’empatia umana nel visitatore nato ipoteticamente mille anni prima e in quello che verrà mille anni dopo.

Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Allestimento della mostra Time is out of joint. Foto Giorgio Benni

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Allestimento della mostra Time is out of joint. Foto Giorgio Benni

OLTRE LA STORIOGRAFIA

Il museo muto della Collu, dunque, non è un museo senza didascalie, è un museo che non ha bisogno di didascalie, è un museo senza cornici, un museo che sfonda il casellario storiografico per istituire un dialogo più profondo tra le opere e gli artisti e conseguentemente tra le opere e il pubblico, dando corpo a una narrazione altamente popolare. L’attraversamento, quindi, del museo è una esperienza di leggerezza, che per la prima volta mi fa uscire da una imponente collezione – pari a quelle dei principali musei del mondo – non con un sovraccarico di immagini e una pur benedetta spossatezza, ma con una freschezza e una energia ancora attive, paragonabili a quelle dei convivi ideali, in cui ci si alza da tavola con ancora un poco di appetito. La sobrietà degli spazi bianchi del museo produce finanche momenti di puro capolavoro, come la sala di Sartorio, in cui di fronte allo studio per la Gorgone, si specchiano le immagini della Poupée di Bellmer, e ancora nell’accostamento di Antonio Calderara – che finalmente rimette piede con piena dignità in un grande museo nazionale – e de Chirico, puntando l’attenzione sull’uso straordinario del colore associato al paesaggio da parte di quest’ultimo. È un accostamento coltissimo che rivela la qualità della tramatura invisibile di questo splendente atto di coraggio che è una lezione di museografia di livello internazionale, giacché – bisognerà pur ammetterlo – la mastodontica proiezione di Cristina Lucas nella sala delle battaglie eleva forse per la prima volta il video a quella dimensione artistica classica che in alcuni casi può e deve assumere se non si vuole che le nuove tecnologie nell’arte non siano sempre tenute in piedi dall’ipocrita stampella delle categorie. E allo stesso modo funziona maledettamente l’accostamento delle vedute ottocentesche dei ruderi della nostra civiltà con la Minerva Medica di Basilico di fronte all’angolo in cui un tempio di de Chirico dialoga coi Ruderi sul prato di Pino Pascali, che hanno in quinta un Burri in equilibrio tra apollineo e dionisiaco.

Time is out of joint - exhibition view at Galleria Nazionale, Roma 2016 - photo Giorgio Benni

Time is out of joint – exhibition view at Galleria Nazionale, Roma 2016 – photo Giorgio Benni

UNA PICCOLA FALLA

In questo silenzio pieno di assonanze, c’è forse spazio anche per la soluzione alle critiche poste dai molti che non hanno apprezzato l’operazione. Alcune opere hanno la possibilità di essere approfondite attraverso le audioguide, giacché non una singola parola scritta in più, oltre a quelle presenti, sarebbe tollerabile in questa combinazione chimica che con una piccola scossa potrebbe trasformare in carbone quello che a tutti gli effetti è un diamante. Le audioguide, quindi, come approfondimento e non come accompagnamento potrebbero essere potenziate e presenti su tutte le opere della collezione. Sarebbe uno sforzo necessario per rendere davvero inattaccabile questo castello, nelle cui mura, comunque una falla c’è ed è tanto più grave proprio perché nella sua pur limitatissima estensione sfata la sofisticata intelligenza di questo romanzo di storia dell’arte. Sto parlando delle due opere di Luca Rento che fanno letteralmente tremare la sala con Segantini e Pellizza e dissacrano la corrispondenza d’amorosi sensi fra le Ninfee di Monet e quelle di Stefano Arienti. Ovviamente non sono d’accordo neppure con l’orrore del concorso di bellezza delle opere, ma si tratta di una specie di gioco, che è ben altro rispetto alle cose serie. E così, all’uscita, mi trovo, io per primo, felicemente turbato, con i parametri alla rovescia, conscio di un fatto: che anche il metodo più giusto e corretto può essere sovvertito nel suo opposto, a patto che tale operazione sia eseguita come un esercizio perfetto. È una legge antica dell’arte. La legge per cui una puttana ripescata dal Tevere può diventare la Madonna del più bel quadro della storia dell’arte. Anche allora, da chi aveva voce per esprimersi a riguardo, l’opera venne rifiutata. Ma a qualche secolo di distanza, di tutta quella polemica resta il coraggio e la maestria dell’autore di un gesto che non necessita affatto della didascalia.

Gian Maria Tosatti

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