Dall’Archivio Viafarini. Intervista con Mattia Pajè

Nuova conversazione tra Progetto /77 e alcuni degli artisti incontrati nell’ambito del progetto “Portfolio Review Re-enactment”, in collaborazione con Viafarini. Tocca a Mattia Pajè raccontare la sua pratica. Fra pittura, interazione con il pubblico e consapevolezza.

L’intera ricerca di Mattia Pajè (Melzo, 1991; vive a Bologna) parte dal bisogno di comprendere l’utilità dell’arte contemporanea e quale azione quest’ultima esercita sul fruitore. La serie pittorica Points (2016) è un’illustrazione scientifica del parallelismo fra cromoterapia (utilizzo del colore come supporto medico) e riflessologia (pratica di medicina alternativa che consistente nella stimolazione di zone del corpo chiamate punti riflessi). Il medium pittorico viene spogliato di ogni rimando poetico, per diventare espressione della ricerca della consapevolezza dell’artista rispetto allo sguardo del fruitore.

All’interno del tuo lavoro risulta evidente l’attenzione ai meccanismi interni e propri di quello che definiamo sistema dell’arte. Dove collochi te stesso e il tuo lavoro all’interno del sistema? E cosa intendi per sistema dell’arte?
Quando esiste una necessità o una volontà di mostrare ciò che si crea comincia a delinearsi un sistema: una circoscrizione di eventi e personalità che orbitano attorno alla produzione, alla fruizione e alla comprensione delle opere d’arte.
In primo luogo è un insieme di rapporti: l’artista e sé stesso, l’artista e le cose, l’artista e i concetti, l’artista e l’opera, l’artista e il pubblico, il pubblico e i concetti, il pubblico e l’opera, il pubblico e le cose, i concetti e le cose, l’opera e i concetti, l’opera e il pubblico ecc. Lo spazio (che fa riferimento a un luogo fisico o a un luogo mentale) e il tempo (inteso anche come durata, come periodo storico, come una serie di azioni o atti di produzione) influiscono fortemente sul carattere del paradigma che contiene questo insieme di rapporti e vengono a crearsi delle situazioni particolari per ogni conformazione dell’insieme in relazione al paradigma.

Che cosa intendi per situazioni particolari?
Le situazioni particolari vengono spesso costruite a partire da letture e concezioni individuali di quei rapporti, che a loro volta si fondano su parametri creati sulla base di preconcetti, esperienze, condizionamenti, influenze, indottrinamenti, intuizioni e ragionamenti. Ciò che in me suscita interesse è l’impossibilità di definire precisamente uno stato delle cose; questo mi pone in una continua analisi delle circostanze generali e particolari.
Da un lato nascono opere che vorrebbero tenere conto di tutte queste architetture e cercare di inserirsi tra i paradigmi e gli insiemi con l’intento di ridurre l’aspetto particolare in favore di processi generali. Dall’altro lato prendono vita, come una forma di ribellione, opere che non prevedono nulla, di provenienza ignota, che adorano il fare, la fascinazione e il fallimento.

Mattia Pajè, cervello, 2016 - smalto su tela, 220x150 cm

Mattia Pajè, cervello, 2016 – smalto su tela, 220×150 cm

E tu quale approccio metti in campo?
In uno spazio e in un tempo cerco di capire come percepisco quello spazio e quel tempo e provo ad analizzare le varie possibilità di interazioni tra rapporti in quel determinato spazio-tempo, ponendo particolare attenzione e cercando di intervenire sul fenomeno della fruizione. Anche questa intervista è un sistema di rapporti all’interno di un paradigma e come tale è un evento particolare soggetto a continue distorsioni e fraintendimenti. Nell’impossibilità attuale di fissare questo stato, mi piacerebbe rispondere alla domanda citando Gino De Dominicis: rispetto al sistema dell’arte, adesso mi colloco seduto su una sedia troppo alta, con la schiena curva sulla scrivania, battendo i tasti della tastiera del pc.

La tua ricerca verte sull’azione che l’arte contemporanea esercita sul fruitore. A quale tipologia di pubblico ti rivolgi? E perché?
Nel momento in cui un’opera d’arte viene esposta, come dicevamo, è comune pensare che il suo contenuto si palesi in varie forme e modi relativi a situazioni particolari.
Lo spazio e il tempo in cui è inserita, la presenza o assenza dell’artista, lo sguardo del fruitore, l’aspetto curatoriale genererebbero una moltitudine di connessioni tra l’opera e il mondo in un continuo divenire di possibilità.
In questa fase della mia ricerca credo sia possibile, però, che alcune opere, indipendentemente da quel sistema di rapporti di cui sopra, riescano ad autodefinirsi. Non intendo certo sminuire le infinite possibilità dell’opera di essere in divenire, di essere portatrice di un ragionamento o di uno o più significati, ma credo che esista una eventualità in cui è possibile elaborare una modalità di lettura della stessa che permetta di trovarsi di fronte a una situazione non interpretabile, una situazione in cui l’opera possa essere un dato certo rispetto a qualsiasi fruitore.

Che cosa intendi, nello specifico?
Nel cercare di comprendere come potrebbe funzionare questo genere di rapporto creazione-fruizione si individua la possibilità di intendere l’opera come un’informazione, un’istruzione, un dato appunto, capace di generare molteplici possibilità nell’utilizzo della stessa, ma non nella sua interpretazione.
Mi spiego meglio: se l’opera si fa strumento, il pubblico ha solo la possibilità di utilizzarlo, ma non di interpretarlo. A posteriori si potranno giudicare i suoi risultati o creare dei legami di senso attorno a essi, ma l’opera rimane slegata da queste dinamiche, è attiva oltre la sua passività e offre solamente una possibile soluzione che il fruitore può vivere anche involontariamente.
Vorrei ad esempio che Points agisse così. Vorrei che si tenesse lontano dalla volontà di comprensione celebrale, lontano dal pensiero, lontano dall’emozione, ma che agisse sul corpo del fruitore, anche nella sua totale incoscienza, che possa essere quindi uno strumento possibile anticipando l’utilità dello strumento stesso ed il suo significato.
In questo ordine di idee risulta riduttivo cercare di selezionare una tipologia di pubblico piuttosto che un’altra, ma diventa costruttivo cercare di comprendere come poter innescare una fruizione umana, che sia svincolata dal carattere del pubblico, che sia aculturale e che possa quindi rimanere integra in ogni situazione.

Mattia Pajè, genitali, 2016 - smalto su tela, 120x80 cm

Mattia Pajè, genitali, 2016 – smalto su tela, 120×80 cm

Puoi fare un esempio?
Quando Marzocchi e io abbiamo realizzato Power a Istanbul, abbiamo cercato di creare un rapporto opera-pubblico apparentemente difficile. Power era innescato da una performance senza spettatori svoltasi in un appartamento privato di un quartiere periferico della città. La performance consisteva nel riprodurre delle posizioni di mani e piedi utilizzate in diverse pratiche di concentrazione e di rigenerazione individuali con lo scopo di auto-stimolare benessere psico-fisico. Le posizioni venivano filmate dall’atto performativo e trasmesse in tempo reale a un video proiettore che illuminava il palazzo adiacente all’appartamento. Il risultato visibile era una proiezione video di 9×5 metri sulla facciata di un palazzo in un quartiere buio e malfamato dell’enorme città di Istanbul. Ricordo che alcuni ragazzi del luogo, che si divertivano a prendersi a schiaffi e a bere chissà quale intruglio alcolico, si fermarono a guardare la grande proiezione e, dopo aver acceso un fuoco sul marciapiede, cominciarono a imitare le posizioni che vedevano proiettate sul palazzo. Quattro ragazzi turchi ubriachi e con le guance gonfie per gli sberloni, che utilizzavano involontariamente uno strumento per procurarsi benessere attraverso la posizione delle loro mani. Questa tipologia di fruizione, nel suo essere estrema, mi interessa.

Durante il nostro incontro ci raccontavi di una pubblicazione che stavi terminando di trascrivere, nata da delle conversazioni avvenute tra te e diversi artisti, dove chiedevi loro che cosa fosse e che senso avesse l’arte contemporanea. Se ora questa domanda venisse posta a te, cosa risponderesti in relazione alla ricerca che sei riuscito a portare avanti fino a ora?
Mise en Abyme è un progetto interminabile, ora sto lavorando per pubblicarlo, ma non potrò mai considerarlo finito. Si tratta di una serie di interviste, alcune in forma testuale, altre in forma parlata e trascritte, che ho svolto con artisti italiani compresi in una fascia di età tra i 25 e i 35 anni. Ogni intervista è modulata sulla prima risposta dell’artista coinvolto, non ci sono domande prestabilite. Il fulcro dei discorsi ruota sempre attorno alla questione del senso e dell’utilità delle opere d’arte, all’entità dell’arte e al ruolo dell’artista nella contemporaneità.

Qual era il tuo obiettivo?
In primo luogo mi interessava attivare un ragionamento, capire se gli artisti si fossero posti determinate questioni e quale tipo di conclusione avessero raggiunto. In secondo luogo mi interessava innescare una mise en abyme, individuare un punto estremo del discorso oltre al quale si perde ogni riferimento.
Se queste domande venissero ora poste a me direi che la risposta è questo progetto, è Mise en Abyme, che nasce proprio dalla volontà di comprendere se esistono situazioni generali in un insieme di singolarità e particolarità.
Ciò che sono riuscito a individuare è che il senso di certe operazioni potrebbe essere la stessa ricerca del senso, che più va a fondo e più si apre in caleidoscopiche possibilità.

Come hanno reagito i tuoi interlocutori?
Per rispondere alle mie domande è stata necessaria, da parte degli intervistati, un’osservazione del proprio pensiero e uno sforzo di codificare nel linguaggio le modalità in cui la mente si muove e il corpo agisce nel mondo, esattamente come sto facendo io ora. Sovente si è venuta a creare una situazione di smarrimento linguistico in cui si è palesata la difficoltà di legare alcuni concetti a dei termini esistenti, come se il fulcro del discorso, al quale si voleva arrivare, sia stato sempre un po’ più in là di dove arrivava il vocabolo: più il discorso entrava in profondità e più la sua chiusura si allontanava. Quando si parla di comprensione delle cose, di ricerca del senso c’è sempre un punto in cui ci si trova di fronte a un baratro: le infinite possibilità e l’impossibilità di definirle, idealmente, linguisticamente e praticamente.
Se il senso è la ricerca del senso allora Mise en Abyme è un tentativo di creare un senso specifico nella ricerca del senso. È come se il lavoro si rispondesse da solo: la sua domanda è “qual è il senso?” e la sua risposta è la domanda, è la ricerca.

/77

www.mattiapaje.com
www.viafarini.org
http://progetto77.tumblr.com/

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/77 è un collettivo di artisti composto da Giulia Ratti, Alessandro Moroni, Nicole Colombo e Luca Loreti. L'intento del collettivo è di realizzare collaborazioni e progetti che coinvolgano giovani artisti, senza esperienze espositive importanti alle spalle. Il nostro interesse principale…

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