Critica viva. Il nuovo e il sistema
Che cosa caratterizza il sistema dell’arte contemporanea? Innovazione, ricerca, avanguardia e rischio paiono essere idee non contemplate dalle logiche istituzionali, che tendono a livellare le spinte creative e a sedare qualsiasi ribellione culturale.
Concentrarsi su come “accade” il nuovo, su come viene elaborato.
La differenza tra nuovo “autentico” e vecchio-camuffato-da-nuovo (vecchio travestito, vecchio imbellettato): in che cosa consiste? E quando compare esattamente questo finto nuovo, questa simulazione?
Da qualche parte tra Anni Sessanta e Anni Settanta.
Quando appare anche il “contemporaneo” di specie sottilmente diversa dal “tempo-contemporaneo” (in cui viviamo immersi), il presente alieno e depurato di cui si nutre l’arte contemporanea da qualche decennio (se è vero che, non da oggi, esistono almeno due presenti: il presente-presente, e il presente dell’arte contemporanea; che scorrono paralleli, ma che non si toccano – mai; ancora).
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Entrare in “conflitto” con il “sistema”?
E perché poi? A che cosa serve?
(A parte il fatto, abbastanza ovvio, che oggi più che mai ogni atteggiamento di questo tipo cela un’attitudine non solo piuttosto teatrale, melodrammatica – in questo certamente arcitaliana – ma anche fortemente regressiva, retrograda, conservatrice; di opportunismo e di collusione con il “micropotere” che a parole si dice di voler contrastare. Di questo si può essere sicuri.)
Cosa ben diversa è la “ribellione” culturale, che è stata accuratamente espunta, eradicata dai cervelli creativi (con le dovute eccezioni, come sempre avviene: ma appunto come sempre, si tratta delle proverbiali “eccezioni che confermano le regola”) nell’arco di un quarantennio.
Voglio dire: ciò che passa sotto l’orrendo nome di “sistema dell’arte”, così come sì è evoluto negli ultimi decenni, è concepito, progettato, costruito e realizzato in modo tale da essere radicalmente opposto a: innovazione; sperimentazione; ricerca; avanguardia; sottocultura; rischio; margine; scoperta – e riscoperta – di zone culturali ignote.
“Lo stile è un inganno. Ho sempre avuto l’impressione che i greci si nascondessero dietro le loro colonne. Trovo spaventosa l’idea di Van Doesburg e di Mondrian di imporre la creazione di uno stile. La forza reazionaria del potere consiste precisamente nella volontà di perpetuare uno stile, assieme a tutto il resto. È impossibile scoprire come sia nato un determinato stile. Pensare di poter creare uno stile a priori è, ai miei occhi, un’idea assolutamente borghese. La volontà di creare uno stile è un modo per giustificare la propria angoscia. Gli innovatori appaiono sempre alla fine di un’epoca” (Willem de Kooning, Una visione disperata [1949], in Appunti sull’arte, Abscondita 2003, p. 12).
Ciò non vuol dire che concetti, e ancor più “attitudini”, “disposizioni d’animo” di questo tipo non penetrino occasionalmente all’interno del sistema istituzionale, non vengano cioè riconosciute quanto basta: ma penetrano sempre e comunque in quanto “temi” da “trattare”, in quanto cioè oggetti prodotti idee da scegliere su un ipotetico scaffale.
Che è una faccenda tutta diversa da come si presenta invece una “ricerca” artistica condotta in autonomia e in libertà, all’insegna del rischio costante. E ancor più diversa da ciò che possiamo – ancora: chissà per quanto – concepire come arte e cultura d’avanguardia.
Voglio dire che quel prelievo, quell’ingresso, quell’immissione (più o meno occasionali) non avvengono affatto a costo zero: comportano, e richiedono, una mutazione importante che consiste nell’imposizione all’opera e all’artista di una determinata “postura”: così, ciò che era potenzialmente interessante nell’atteggiamento di un’opera o di un processo creativo, di una relazione o di una riflessione, viene immancabilmente condizionato, addomesticato, ricondotto cioè nell’alveo delle convenzioni e dei codici (che sono, è bene ricordarlo, prima di tutto “comportamentali”: vale a dire sociali).
Un recinto che annulla e neutralizza di fatto, e immediatamente, tutto quanto di buono quell’opera avrebbe potuto produrre nel corso della propria esistenza, ogni ulteriore processo culturale e ogni rapporto umano, con gli individui, le comunità e il contesto di riferimento; segnalando il “fallimento nelle costruzioni immateriali della mente, nell’operare dei motivi che dovrebbero condurre alle decisioni e all’azione che sono necessarie per far tornare in circolo le risorse e i mezzi materiali di cui già disponiamo” (John Maynard Keynes).
Nulla di importante, divertente e vivo si realizza e si sviluppa nel vuoto. Una camera iperbarica non è un ecosistema, per quanto fingiamo che lo sia: è solo una camera iperbarica.
In premio, una vita simulacrale – e l’equivalente simbolico di like e faccine.
Christian Caliandro
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