Neon Paradise
Mostra collettiva dal titolo Neon Paradise. Shamanism from Central Asia dedicata alle pratiche sciamaniche post-sovietiche nell’arte contemporanea del Centro Asia.
Comunicato stampa
La Galleria Laura Bulian è lieta di annunciare l’apertura della mostra collettiva dal titolo Neon Paradise. Shamanism from Central Asia dedicata alle pratiche sciamaniche post-sovietiche nell’arte contemporanea del Centro Asia. La mostra presenta video, opere installative e fotografie di Vyacheslav Akhunov (Uzbekistan, 1948), Said Atabekov (Kazakistan, 1965), Saodat Ismalieva (Uzbekistan, 1981), G.Kasmalieva & M.Djumaliev (Kirghizistan, 1960 e 1965) e Alexander Ugay (Kazakistan, 1978). Saranno inoltre esposti in anteprima assoluta documenti originali dell’attività performativa del gruppo kazako Kyzyl Traktor, fondato a Shimkent nel 1991 dagli artisti Said Atabekov, Smail Bayaliev, Moldakul Narymbetov, Arystanbek Shalbayev e Vitaliy Simakov.
In Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Mircea Eliade si soffermava sulla condizione da lui chiamata “nostalgia del paradiso”, definendola come il desiderio di “trovarsi sempre e senza sforzo al centro del mondo, nel cuore della realtà”, trascendendo le limitazioni della natura umana per rinascere a un nuovo livello di consapevolezza. Questa “nostalgia del paradiso” è una metafora potente anche per gli artisti originari dell’Asia Centrale che in epoca post-sovietica hanno ricreato o mimato rituali sciamanici, reinterpretando tale fenomeno in un ampio ventaglio di soluzioni concettuali. Dopo la frattura storica generata da settant’anni di URSS è pressoché inevitabile che l’immagine dello sciamano in queste opere tenda a essere fluida e instabile. Ormai lo sciamano non è più il “gran maestro dell’estasi”, signore del fuoco o medium esclusivo tra l’uomo e gli spiriti. La sua ombra sfuggente sembra incarnare piuttosto quel sostrato tribale con cui la cultura russa si è trovata sempre a dialogare nella sua storia.
Da una parte, una rilettura dello sciamanesimo implica il confronto con l'eredità avanguardistica, ossia non può ignorare la sua concettualizzazione del primitivo e la sua proiezione utopica verso l’uomo allo stato di natura. D’altro canto, l’artista contemporaneo, inserito nelle dinamiche del mondo dell’arte, non è più in grado di condividere in forma pura questo slancio ideale.
Lo “sciamano ritrovato” dopo la caduta dell’URSS diventa dunque oggetto di una tensione destinata a rimanere delusa, il simbolo di una spiritualità originaria verso la quale si può provare fascinazione o rimpianto, ma che resta comunque inattingibile. Non a caso, il discorso sullo sciamanesimo sembra cristallizzarsi intorno alla nozione di alterità: accanto alla presenza fantasmatica dello sciamano, emerge il tema della città, della dimensione urbana (contrapposta a quella del villaggio), entro cui l’artista contemporaneo di norma agisce e crea. La questione dell’eventuale appropriazione dell’alterità sciamanica – che per gli artisti provenienti dall’Asia Centrale coincide anche con la propria identità ancestrale – resta dunque aperta. In quale misura l’artista contemporaneo è in grado di mutuare le occorrenze della prassi sciamanica, rielaborandole all’interno della propria strategia autorale?
Per Said Atabekov l’incontro con il mito dello sciamano assume i tratti di un’esperienza personale dai risvolti alienati. Nelle performance realizzate da solo o insieme agli altri componenti del gruppo Kyzyl Traktor (“Trattore rosso”) l’artista nato nel 1965 a Bes Terek (ora Uzbekistan) assume le sembianze di uno sciamano, indossandone le vesti o, meglio, una loro variante filologicamente inattendibile. Lo sciamano reenacted di Atabekov è innanzitutto un čudak, uno “stravagante” sradicato dalla dimensione comunitaria del villaggio, impegnato a compiere riti bizzarri, inevitabilmente contaminati dalla penetrazione culturale occidentale. È così che gli capita di vagare per la steppa sulle note dell’Adagio di Albinoni, con un contrabbasso issato in spalla (come nella video-performance Walkman, 2005) o di meditare inginocchiato davanti alla porta automatica di un grande magazzino (Neon Paradise, 2003), interagendo non più con gli spiriti, bensì più modestamente, con una fotocellula.
Quest’attitudine ironica alla decostruzione affonda le sue radici nelle performance realizzate da Atabekov all’interno del collettivo Kyzyl Traktor (Said Atabekov, Smail Bayaliev, Moldakul Narymbetov, Arystanbek Shalbayev e Vitaliy Simakov) verso la metà degli anni Novanta. Interpretata in passato come un tentativo quasi etnografico di riscoperta delle proprie radici, la prassi di Kyzyl Traktor sembra piuttosto farsi beffe degli stereotipi “orientalisti” attraverso cui il pubblico occidentale guarda spesso all’Asia Centrale. Ostentando la propria natura di sciamani-impostori, Atabekov e i suoi compagni prendono le distanze dalle mode new-age e dalla commercializzazione post-sovietica dell’eredità sciamanica, attuata talvolta da guaritori non meno fasulli di loro. Un’analoga, giocosa tendenza a disattendere le aspettative degli spettatori emerge anche dal film in formato super 8 Tea Ceremony di Alexander Ugay (2001), dove la tradizionale cerimonia del tè giapponese (la famiglia dell’artista proviene dall’Estremo Oriente) si trasforma in un rituale estatico dagli esiti imprevedibili, reso ulteriormente straniante dal medium cinematografico desueto utilizzato per fissarlo.
Nel caso di Kyzyl Traktor e Ugay, sembra dunque essere valida la cornice interpretativa tratteggiata da Viktor Misiano, secondo cui, recuperando archetipi etnico-nazionali quali la vita nomade, la steppa, il sufismo o lo sciamanesimo, gli artisti dell’Asia centrale creerebbero costrutti mitopoietici, ossia narrazioni non necessariamente miranti all’autenticità. Un afflato diverso emerge invece dal video Sham (2004), girato da Gulnara Kasmalieva e Muratbek Djumaliev in Kirghizistan sul Kočkor Ata, vulcano estinto, luogo sacro e meta di pellegrinaggi fin dall’antichità. Sham è la testimonianza documentaria e intensamente lirica dei falò rituali che ogni giovedì illuminano per tutta la notte le pendici del monte. Fin dai tempi più remoti infatti le rocce nere e rosse di origine lavica del Kočkor Ata sono state ritenute dotate di una energia particolare. È qui che gli sciamani kirghisi, detti baqshï sono soliti condurre i loro pazienti in cerca di guarigione. La protagonista di Sham è una pellegrina malata che sale faticosamente verso la vetta della montagna, nella speranza che la sua vita possa cambiare.
Il tema dell’ascesa iniziatica (in senso letterale o metaforico) torna anche nei video Ascent e Corner realizzati da Vyacheslav Akhunov in collaborazione con Sergey Tichina (2004). Qui l’artista, noto per il suo approccio “archeologico” alla simbologia sovietica, rilegge il motivo dell’estasi all’interno della cornice concettuale del sufismo, la corrente mistica dell’Islam che affonda le sue radici nello sciamanesimo centro-asiatico. La costruzione di uno spazio di raccoglimento interiore che renda possibile il contatto individuale con la divinità viene messo qui a confronto con la dimensione urbana di Tashkent e con l’utilizzo delle nuove tecnologie. In entrambe le opere, la processualità dell’azione, fissata in carrellate all’indietro o “virata” in modalità loop, prevale sul raggiungimento della meta che, come insegnano i mistici sufi, è sempre parziale e provvisoria.
Ma lo sciamanesimo è anche immersione nella natura e identificazione panica con gli spiriti che ci circondano. Nell’installazione a tre canali Stains of Oxus (2016), Saodat Ismailova elabora un’immagine struggente del fiume Amu Darya o Oxus, attraverso le scene di vita quotidiana che si svolgono sulle sue sponde, ma soprattutto per mezzo dei sogni che visitano i suoi abitanti. Sogni che costituiscono il tramite con gli spiriti ancestrali e una difesa seppur labile dalla catastrofe ecologica in atto nel lago d’Aral, il bacino in cui l’Oxul si gettava fino a pochi decenni fa e che appare ora quasi completamente disseccato. Quasi a testimoniare come la “nostalgia del paradiso” sia sempre più attuale.