La fotografia e il paesaggio italiano. Intervista ad Antonio Ottomanelli
Al termine della mostra “Verso il Mediterraneo”, il co-curatore Antonio Ottomanelli traccia un bilancio dell’operazione che ha coinvolto undici fotografi. Un’occasione per introdurre i futuri sviluppi e tracciare un’analisi del territorio nazionale, a partire dai concetti di cura e ricostruzione.
Prima di approdare a Roma, a Palazzo Poli, la mostra Verso il Mediterraneo. Sezioni del paesaggio da Salerno a Reggio Calabria – che vi presentiamo attraverso l’allestimento curato dallo studio 2A+P/A (Gianfranco Bombaci, Matteo Costanzo con Sebastiano Palamara e Rina Rolli) – ha percorso essa stessa un itinerario “sul campo”. A tracciare il senso di questo processo, e i suoi possibili prossimi approdi, è Antonio Ottomanelli che, con Emilia Giorgi, ha curato la mostra romana, in chiusura il 14 febbraio. Realizzata in collaborazione con Anas, ICG – Istituto centrale per la grafica e MAXXI – per l’occasione il museo romano ha concesso un cospicuo numero di opere di Gabriele Basilico, Olivo Barbieri e Mario Cresci e, prossimamente, ospiterà una tavola rotonda sull’attualità delle campagne fotografiche –, la rassegna proseguirà con la pubblicazione di un catalogo contenente saggi di Stefano Boeri, Joseph Grima e Mauro Francesco Minervino, tra gli altri. Architetto e fotografo, Ottomanelli ha curato con Jawad Dukhgan la mostra Lessons of a City, con cui il 24 febbraio aprirà il nuovo spazio Planar Gallery, a Bari. Attraverso una raccolta ragionata di reperti e documenti, racconterà la città di Amman e le sue trasformazioni in relazione alle vicende geopolitiche che hanno interessato i paesi arabi. Dal 24 al 26 febbraio, si susseguiranno talk e tavole rotonde con architetti, ricercatori, artisti, designer internazionali; attesi in Puglia anche Lorenza Baroncelli, Joseph Grima, Marco Ferrari, Elisa Pasqual (Folder Studio), Domenico Pastore, Mark Wasiuta, Parasite 2.0, Small.
L’INTERVISTA
Dopo l’esordio alla Triennale di Milano e la mostra di Roma, come proseguirà Verso il Mediterraneo, la cui genesi si lega a The Third Island Ag ’64 ’94 ’14 e alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia?
Tutto ha avuto inizio con la chiamata a partecipare a Monditalia, nell’ambito della Biennale curata da Koolhaas. In quell’occasione decisi di partire dal Sud, mosso da alcuni anniversari importanti: i vent’anni dall’apertura del porto di Gioia Tauro e i cinquant’anni dall’inizio dei lavori della Salerno-Reggio Calabria. Entrambe le ricorrenze e le infrastrutture sono divenute il movente per sviluppare una riflessione laterale, non consumata, sul termine “grande opera”, capace di rivoltarne il significato comune e triviale. Le ho interpretate come un’opportunità per tornare a conoscere un pezzo di paesaggio italiano – la Calabria – che è la rappresentazione dell’abitudine al trauma e al conflitto. Ognuno di noi l’ha, in qualche modo, isolata attraverso un processo di smemoramento.
Come si è evoluto il progetto?
In seguito alla mostra in Triennale, è sorta la necessità di tornare a lavorare in maniera più esaustiva sul materiale realizzato. L’inaugurazione della Salerno-Reggio Calabria ci ha offerto l’opportunità di ampliare la ricerca, con la nuova campagna fotografica estesa a Campania e Basilicata. Nel corso del 2016, undici fotografi hanno mappato entrambe le regioni: i risultati sono stati esposti, a Palazzo Poli, insieme a straordinari materiali d’archivio concessi dall’Anas. Queste fotografie e disegni hanno rivelato una visione del territorio italiano che abbiamo perso: in quei documenti è impressa un’eleganza elementare, mai stressata, legata alla volontà di prendersi cura dei luoghi.
Quest’esperienza non può dirsi conclusa. Il nostro è un impegno, una responsabilità verso il paesaggio.
Quindi la mappatura potrebbe ampliarsi, con un’estensione nazionale?
Con Emilia crediamo sia arrivato il momento di fare una pausa per rieducarci all’ascolto e al dialogo. Dovremmo smettere di negare il conflitto in corso nel nostro Paese: una sosta sarebbe necessaria per ricostruire un’iconografia del territorio italiano, aderente alle attuali condizioni identitarie. Questo iter aiuterebbe a capire come l’architettura e l’urbanistica non sono esclusivamente quanto abbiamo pensato fino a questo momento: le due discipline si possono manifestare in forme, modi e dimensioni totalmente diversi. Un processo ancora più urgente alla luce di quanto sta avvenendo, con il sisma del Centro Italia e gli altri fronti di conflitto che ciclicamente dimentichiamo, dando loro soltanto un’attenzione mediatica, mai sociale e politica. Pensiamo alla Val di Susa, a Taranto, alle aree costiere dell’arco jonico, alle comunità montane, al “mare nero” degli Appennini, con i fenomeni di spopolamento e abbandono che inevitabilmente ne inficiano l’emancipazione e la crescita. Un’Italia spenta, abbandonata.
Come vorreste intervenire?
Vorremmo costituire un gruppo di ricerca che promuova una campagna, diffusa sul territorio e coordinata da enti pubblici e da aziende del settore infrastrutturale, capace di diffondere azioni profonde di sguardo e ascolto. E, provocatoriamente, ci piacerebbe denominare questa operazione “Padiglione Italia”, quasi a denunciare l’obiettivo verso cui vorremmo tendere. La nostra azione vuole porre l’accento non solo sul paesaggio fisico, ma soprattutto su quello determinato dalle scelte politiche. Del resto, non può esistere una politica provvida e innovativa in assenza di una profonda relazione con i luoghi.
A livello di metodo e struttura, questo progetto si muoverebbe con modalità analoghe a quanto fatto fin qui?
A mio avviso non è un caso se a portare a termine attività come questa siano solo gruppi autonomi, autogestiti, anziché istituzioni museali, ad esempio quelle dedite alla fotografia. I team informali riescono a intercettare delle urgenze che sono radicate in profondità nei luoghi, sebbene superficialmente non si riescano a leggere. C’è una sorta di preveggenza, dovuta a una relazione più forte con i territori. Spesso i musei non sono figli del loro tempo, non affrontano la contemporaneità ed evitano alcune responsabilità politiche e civili. Non è nella loro natura ammettere quell’imprevedibilità che tali operazioni possono comportare. Di fatto, nonostante in Italia esista una tradizione forte di campagne fotografiche promosse da enti pubblici, i lavori più recenti e significativi sono stati condotti in forme indipendenti.
Accennavi alla questione dei conflitti in atto nel nostro territorio. In seguito al sisma del 24 agosto si è innescata una nuova ondata di riflessione sul tema della ricostruzione. Quale può essere il ruolo della fotografia in tal senso?
Premetto che non faccio distinzione tra fotografia e architettura: la fotografia è architettura e viceversa. Non c’è differenza, per me, tra fotografia, architettura e qualsiasi altra attività che interviene nei processi di trasformazione del paesaggio. Ho studiato architettura, sono un architetto, faccio il fotografo. Si tratta di una definizione che non mi infastidisce, sebbene sia limitante su due fronti: a livello di responsabilità come professionista e come contributo che, specie sul fronte decisionale, la fotografia sembra poter garantire. Eppure questa disciplina anticipa, è preventiva su qualsiasi tipo di intervento, perché permette un equilibrio tra chi mette in atto i processi di trasformazione e il paesaggio stesso.
In quest’ottica, che cosa significa fare fotografia?
Fare fotografia è un’azione sul costruito e non, sul materiale e sull’immateriale. In particolare, proprio al paesaggio restituisce un ruolo forte, gli riconsegna una dimensione ontologica ed educa all’ascolto chi si confronta con i suoi esiti. L’immagine di un territorio permette a quest’ultimo di parlare, diventa parte proattiva di un cambiamento. Come già indicato da Basilico, nella fotografia è insita una volontà di ricostruzione, di relazione: se accettassimo l’idea dell’Italia come un luogo in uno stato di conflitto, il nostro impegno civile inizierebbe a cambiare direzione e forma. E, non da ultimo, potremmo davvero riflettere su cosa vuol dire ricostruzione.
Un processo dunque molto più che materiale…
In tutte le situazioni di confitto, la ricostruzione deve agire soprattutto sui legami. Deve tendere verso la definizione di un paesaggio pacificato, in cui ci si può muovere liberamente e in sicurezza. La fotografia è un attraversamento dei territori e si fa portatrice di un grande invito all’azione, al superamento di muri, confini, barriere, trincee. Vuole raccontare – oltre le reali possibilità, oltre la contingenza, oltre i limiti connessi con le strategie di controllo – come potrebbe essere un paesaggio se fosse unito. Anche per questo penso che ognuno di noi, e soprattutto i fotografi, sia un avamposto di conoscenza. Siamo tutti delle sentinelle, degli osservatori frontalieri di alcuni fenomeni che riguardano la trasformazione del paesaggio, materiale e immateriale.
Dovendo tracciare un bilancio, quali sono state le implicazioni, a livello umano, di questa attività?
L’avvio di questa ricerca, in Calabria, ha rivelato cosa accade in una regione quando l’abitudine al trauma piega la speranza e il desiderio di emancipazione. Il trauma frammenta, distrugge, mina la comunità e le relazioni su cui essa si fonda: come in un’esplosione, milioni di pezzi singoli non sono più ricomponibili in un organismo unico. La nostra esperienza è stata innanzitutto tesa a far sedere attorno a un tavolo amministratori pubblici, imprese e altri soggetti, invitandoli a dialogare. Comune è stato lo sforzo di rilettura del territorio, per costruirne una visione futura.
Un’azione rivolta al futuro…
In un certo senso, penso che abbiamo gettato le basi per l’edificazione di una grande opera, “un’autostrada immateriale” in cui chiunque ora possa avvicinarsi a quei luoghi che abbiamo disconosciuto ed esiliato. E questo potrebbe avvenire ancor di più, a nostro avviso, nel prossimo Padiglione Italia: più che sull’architettura materiale crediamo si dovrebbe riflettere sulla ricostruzione di un’architettura di ordine identitario. La nostra è una sfida. In ogni caso, il nostro progetto continuerà, speriamo con un team vastissimo e multidisciplinare, fatto di consapevolezze e sguardi diversi. Dobbiamo cercare di ricostruire questo Paese, fatto di fragilità e di resistenze, e riposizionare completamente il sistema dei significati: prima di tutto dobbiamo continuare un’operazione semantica.
Valentina Silvestrini
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