Matera 2019. Intervista a Valerio Rocco Orlando
Settimo appuntamento con “Matera Sentinel”. Valerio Rocco Orlando, in mostra al MUSMA – Museo della Scultura Contemporanea di Matera, descrive il lavoro “Portami al Confine” e i workshop con cui ha reso l'opera accessibile alla città.
Cosa intendi quando parli di confine?
L’obiettivo della mia ricerca non consiste solo nel creare un’opera, ma nell’attivare, attraverso la sua produzione, uno spazio per porre delle questioni. In questo senso, la mia idea di confine coincide con una possibilità, una valenza attrattiva in termini di relazioni che si possano allacciare tra gli individui: il confine, dunque, non come linea che delimita, ma come spazio in cui ci ritrova a condividere un’esperienza. Ed è quello che è successo anche nell’ultimo workshop del 28 e 29 gennaio scorsi al MUSMA. Abbiamo dedicato la prima parte della giornata all’incontro e al confronto verbale. Ho chiesto ai partecipanti di esporsi interpretando la propria idea di confine, e di confrontarsi poi con quella degli altri: c’è chi ha attribuito il concetto di confine alla vulnerabilità interiore, e chi invece ne ha parlato in termini filosofici e politici. Nel pomeriggio ho chiesto loro di mettere per iscritto la loro “nuova” idea di confine, che appariva inevitabilmente cambiata in seguito al confronto.
Ciascuno l’ha condivisa ad alta voce dando vita a una conversazione corale: un racconto rizomatico senza più alcuna linearità.
Qual era il tuo obiettivo?
Mi interessava spostare i limiti di ciascuno e invitarli ad assumere il punto di vista di un altro che sentivano vicino o distante. Il secondo giorno siamo usciti dal contesto protetto del museo e siamo scesi in strada: ciascuno ha lavorato sul proprio confine, tentando di superarlo realmente. Ognuno ha trovato la propria chiave per oltrepassarlo. Portami al Confine rappresenta il tentativo di ogni partecipante di condurmi al proprio, e quel luogo rappresenta per me il punto di partenza del lavoro in cui ambienterò una conversazione.
Tu definisci questa pratica “Drammaturgia Sociale”. In cosa consiste?
È una metodologia di lavoro che ho messo a punto negli anni e che prende vita dalla mia formazione in drammaturgia e regia teatrale e cinematografica. A prescindere dal prodotto finale, che può essere un libro o un film, intervisto persone con le quali instauro un dialogo e costruisco una relazione nel tempo; pongo loro delle domande derivanti da un’attività laboratoriale condivisa, come quella avvenuta al MUSMA. Dalle prime domande si generano risposte e riflessioni che poi trascrivo, e tra le quali creo associazioni attraverso la pratica della riscrittura. Si delinea quindi una conversazione che non è mai reale perché, seppur avvenuta in un dialogo personale 1:1, è rimessa in scena secondo un ordine differente che associa e discosta i punti di vista. Si genera così una nuova socialità: un ritratto collettivo a partire da punti di vista individuali.
Un’azione narrativa, quindi.
Come l’antropologo sociale Anthony Cohen guarda ai modi in cui i confini dei gruppi sociali vengono simbolicamente definiti e quanto le persone diventino consapevoli di appartenere a una comunità, l’obiettivo è indagare e raccontare, attraverso la scrittura, così come per mezzo della fotografia e dei nuovi media, storie diverse, estratte da contesti comuni e quotidiani, per poi ricomporle, attraverso la loro associazione e riattivazione, come i tasselli di un mosaico all’interno di un’immagine d’insieme: in questo caso un film.
Quali forme sta assumendo la tua indagine sul concetto di comunità?
Quello che mi interessa indagare è il concetto di capacity che, tradotto in italiano, dà l’idea di quanto un bicchiere sia capace di contenere qualcosa di esterno. Capacity è il grado di accoglienza della comunità, quanto la comunità sia in grado di tollerare l’altro: lo straniero, l’immigrato, il turista. Per comunità non intendo solo i materani, mi riferisco alla comunità di pratica, alle persone che si sono ritrovate attorno a questo progetto e che provenivano anche da regioni limitrofe, proponendosi un obbiettivo comune. L’accoglienza è il tema urgente degli ultimi anni e soprattutto degli ultimi giorni, in politica interna e internazionale. È anche il tema su cui mi sto focalizzando in questo lavoro, una ricerca che porto avanti da un anno ormai, in un luogo, per me emblematico, che rappresenterà la cultura italiana ed europea nel 2019.
A cosa condurrà questo lavoro collettivo?
L’opera finale sarà una produzione filmica, che non è da intendere come una scadenza e un punto di arrivo, bensì come il frutto del tempo, delle collaborazioni che si innescano e della continuità del lavoro in questo luogo. Sarà ospitato permanentemente all’interno della sala 7 del Museo, nel cuore del Palazzo e nella sala che ospitava la cappella della famiglia Pomarici. Al momento in questa sala vi è un’installazione costituita da mille poster con una lettera scritta alla città di Matera, per la quale mi sono ispirato alla Lettera ai Materani del 1978 dello scultore Pietro Consagra. I partecipanti ne portano a casa uno in cambio della loro collaborazione. Sono poster ormai presenti nelle case delle persone, sui muri accanto ai manifesti, negli infopoint comunali, nelle scuole, in giro per la città. Ho pensato a una mostra che non sia solo occasione espositiva ma anche di produzione: un laboratorio di formazione permanente per il territorio.
Federica Fierri
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