Roberto Cuoghi. Un artista flamboyant
In vista dell’imminente esposizione ginevrina dedicata a uno dei tre artisti che animeranno il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, il direttore del Centre d’Art Contemporain Andrea Bellini e il critico letterario Andrea Cortellessa si confrontano sul lavoro di Roberto Cuoghi.
Mancano solo alcuni giorni all’inaugurazione della mostra ospite del CAC di Ginevra, che vedrà protagonista Roberto Cuoghi, membro della triade artistica chiamata a rappresentare il Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia diretta da Christine Macel. Ecco cosa pensano di lui Andrea Bellini e Andrea Cortellessa, in un botta e risposta poetico e puntuale.
Andrea Bellini: Caro Andrea, in questo momento sto installando qui a Ginevra Perla Pollina, 1996-2016, la prima retrospettiva di Roberto Cuoghi. Artribune mi ha invitato a conversare con te attorno alla sua opera. Penso potremmo prendere le mosse proprio dai testi che abbiamo scritto per il catalogo, una grande monografia che uscirà a maggio per i tipi Hatje Cantz. A proposito del leggendario e famigerato processo d’invecchiamento col quale Cuoghi, all’età di venticinque anni, si è trasformato in un vecchio signore, tu scrivi: “Credo abbia ragione, Cuoghi, a considerare questi episodi non opere in sé bensì, semmai, loro preliminari: processi di preparazione, esercizi spirituali che si fondano su un allenamento specifico del corpo, una sua predisposizione autoplastica, antropotecnica”. Trovo interessante questa idea di inserire Cuoghi in una tradizione ascetica, ne vuoi parlare in modo più esteso?
Andrea Cortellessa: Quando sono andato a incontrarlo nel suo studio a Milano, parlando della sua giovinezza, a un certo punto Cuoghi mi ha ricordato il suo culto per Simon del deserto di Buñuel. Un film che lavora sull’ambivalenza profonda della figura dell’asceta, dell’eremita: figura di matrice religiosa ma che ha a che fare con una tradizione materialista, legata all’esercizio del corpo. È la tradizione “antropotecnica” che ha ricostruito Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita. E mi ha fatto pensare a un’altra figura ambivalente come Emilio Villa, dal quale Cuoghi riprende il basso-materialismo gnostico e la passione filologica per le lingue e culture antiche, pre-classiche. Due aspetti di quella che lui definisce immanenza: trans-valutando la tradizione mistica e sapienziale su un piano corporale e materialistico. È una strada lunga e idiosincratica che fa di lui, come tu stesso scrivi, un unicum nel panorama di oggi.
A. B.: Si tratta di una attitudine comportamentale, questa tendenza all’ascesi di Cuoghi, che nella pratica di realizzazione dell’opera si trasforma in una tendenza alla smisuratezza, al fare a oltranza, a perdere appunto la misura inseguendo un’ossessione. In questo senso Cuoghi dice che è importante per lui non darsi degli obbiettivi da raggiungere, ma perdersi nel fare e nello strafare. Anche per il progetto sulla catena di traduzioni chiamato Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā, l’idea di base è quella di perdere la lingua anziché trovarla.
A. C.: Invece di estendersi sulla superficie, su un piano, è come se Cuoghi scavasse alla ricerca di un porto sepolto, come lo chiamava Ungaretti. Con la sua erudizione sorprendente, Cuoghi è davvero un pozzo di scienza. Un’altra immagine che gli è cara, quella della Torre di Babele, Kafka l’aveva riformulata come Fossa di Babele: perché la confusione delle lingue, la confusione tra i vari piani della conoscenza e i diversi piani temporali, non avviene elevandosi, come una torre o uno stilita nel deserto, ma sprofondando in un deposito remoto che poi è forse l’immaginario collettivo. Un’altra cosa che mi colpisce del tuo testo è il collegamento tra il tema della dismisura e una componente romantica, elemento che distanzia nettamente Cuoghi dai suoi contemporanei, specie italiani. Nel tuo saggio ricordi giustamente come la nostra tradizione, ce lo ha insegnato Agamben, sia anti-tragica: sempre tesa alla ricomposizione di tensioni e conflitti nell’orizzonte della commedia, o comunque sul piano dell’equilibrio. Mentre dal suo pozzo lui fa emergere, scrivi, una componente “oscura e febbricitante”.
A. B.: Fondamentalmente Cuoghi è un nichilista, dominato da uno spirito drammatico e apocalittico, da una tendenza appunto a realizzare ogni nuova opera come se fosse l’ultima. La dismisura, il salto nel vuoto, il voler fare ciò che non si sa fare, sono aspetti fondamentali della sua personalità e quindi della sua opera. Solo ciò che è in grado di generare una nuova ossessione merita la sua attenzione. In questo senso Cuoghi non ha artisti di riferimento ai quali ispirarsi, non cerca nella storia dell’arte padri da cui imparare: egli si muove per istinto, senza programma. Ogni ciclo di lavori è molto diverso – per quanto coerente – da quello precedente. La radicalità di Cuoghi nello sperimentare linguaggi, materiali e forme nuove deve basarsi su un metodo capace di sopportare il massimo grado di indeterminazione possibile, deve basarsi fondamentalmente su un’assenza di metodo: fare senza saper fare, appunto, essere spregiudicati, condannarsi a una sequela continua di salti nel vuoto.
Da grande nichilista, Roberto ha poi una considerazione molto particolare della questione del caos e del caso. Molti dei suoi titoli, come Perla Pollina, sono non sense generati dal caso, come l’azione del correttore automatico di un programma di scrittura. Nel tuo saggio tu parli anche della grande scritta LOTTA, la prima cosa che si vede dalla strada arrivando davanti al suo studio.
A. C.: Quando si vede questa grande scritta davanti al suo studio si pensa a una rivendicazione d’antagonismo, o forse a un ricollegarsi alle sue origini punk, però poi quando lui spiega che è ricavata dall’insegna di una multinazionale di idrocarburi, TOTAL appunto, si riflette sull’aspetto pubblicitario di ogni rivendicazione di antagonismo, ma anche sulla bizzarra metafisica di un’azienda che prende il nome niente meno che dalla totalità. Poi, al di là di questa porta quasi dantesca, c’è una vera e propria Wunderkammer da scienziato pazzo o da apprendista stregone, cioè di qualcuno che ogni volta deve ridefinire il codice, il linguaggio, addirittura la disciplina cui si dedica. Se si tratta di una ceramica bisogna prima costruire il forno, se si tratta di un brano musicale bisogna prima costruire lo strumento: ogni volta ponendosi in una condizione non di primitivismo ma di primitività, di originarietà. Mi ricordo una bellissima intervista di Bernardo Bertolucci su Pasolini quando girava Accattone: diceva Bertolucci che in quello che era il suo primo film ogni colpo di manovella di Pasolini, completamente digiuno di tecnica cinematografica, era il primo colpo di manovella della storia del cinema. Anche nel caso di Cuoghi ogni lavoro trasmette una sensazione di potenza originaria: quella del primo gesto, della prima scoperta…
A. B.: Infatti. Una cosa che Roberto non fa mai è proprio quella di partire dalle esperienze altrui, dalle istruzioni per l’uso scritte da altri. A lui interessa percorrere nuovi territori, quindi alla fine l’opera rappresenta proprio quelle inedite istruzioni per l’uso che sono servite a realizzarla. In questo senso si può dire che è un artista autodidatta. Certo tutti sappiamo che ha studiato all’Accademia di Brera, ma non è questo il problema. La questione è che Cuoghi si pone di fronte a ogni impresa come uno che non sa niente e che deve imparare tutto da zero e da solo, in proprio. Dipingere senza utilizzare colori e pennello; realizzare opere sonore senza avere alcuna nozione musicale; fare della scultura senza mai aver toccato della ceramica e senza aver mai visto un forno in vita sua.
A. C.: Tu scrivi che tutti i lavori di Cuoghi appaiono sincronici: “Sono tutte opere prime e ultime, opere in sé quasi prive di parentela, distanti tra loro e al tempo stesso molto simili”. Una volta Roland Barthes riprese il concetto leibniziano di mathesis universalis, sostenendo che ogni artista in effetti realizza una mathesis singularis, un sistema che vale solo per sé stesso: come una lingua che, paradossalmente, parlasse un unico soggetto.
A. B.: L’universo di Cuoghi in questo senso è Unico: ogni ciclo di lavori è diverso dal precedente e nasce di volta in volta da una nuova ossessione. In questo senso la sua opera, non potendo somigliare a sé stessa, non può somigliare a quella di nessun altro.
A. C.: Un artista flamboyant, uno che si brucia sempre le navi alle spalle. Brucia il linguaggio, brucia sé stesso e ogni volta brucia un po’ anche noi. È molto rinfrancante che qualcosa ci possa ancora bruciare le mani.
A. B.: Del resto alla fine degli Anni Novanta, quando ha deciso di invecchiare artificialmente e rapidamente, è arrivato a bruciarsi il cuoio capelluto con un decolorante per capelli, e più in generale si è bruciato la salute arrivando a pesare 140 chili, partendo da 70. Con Cuoghi non si scherza perché la sua radicalità non conosce mezzi termini. Per questo non riesce ad aderire al teatrino dell’arte, ai vernissage per VIP, alle cene ufficiali…. Davvero, come scrivi tu, Cuoghi è un eremita e – ne sono certo – se potesse farebbe a meno di lavorare anche alle sue di mostre. Ciò che conta per lui è l’opera, e forse – ancora di più – la modalità con la quale questa viene realizzata. Io credo che fare arte è l’unico modo che Cuoghi abbia individuato per poter sopravvivere a se stesso, per poter convivere con la propria tendenza suicidaria alla dismisura.
Andrea Bellini e Andrea Cortellessa
Ginevra // dal 22 febbraio 2017
Roberto Cuoghi. Perla Pollina, 1996-2016
CAC
www.centre.ch
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