Vivi, morti e non-morti. L’editoriale di Marco Senaldi
Il rapporto dell’epoca contemporanea con la morte ha molto a che fare con la rimozione. Mentre la categoria dei non-morti, leggi zombie, si è guadagnata un ottimo ruolo nell’immaginario collettivo. Del resto, ne parlava anche Kant…
Mai come nella nostra epoca la celebrazione della morte è stata tanto rimossa dalle nostre esistenze. Quanto più nei media ci capita di assistere quasi quotidianamente alla “morte in diretta”, tanto meno riusciamo a rielaborarne il significato, al punto che oggi un semplice corteo funebre è unanimemente considerato un impaccio al traffico.
Ma la società dell’immaginario in cui peraltro continuiamo a (sopra)vivere si incarica per conto suo di supplire a questa perdita nelle forme e nei modi che le sono caratteristici, reintroducendo la figura del morto con uno spettacolare “ritorno del rimosso”. Il temuto “ritorno dei morti viventi” è divenuto così la caratteristica di un intero genere cinematografico che va dagli zombie di Romero a Grindhouse di Rodriguez.
Ma per capire che cos’è esattamente un “morto vivente” potrebbe rivelarsi una volta tanto più utile la filosofia idealista dello stesso cinema horror. Nella Critica della ragion pura, infatti, Kant, parlando dei due classici generi di giudizio, affermativo e negativo, introduce una singolare terza possibilità, cioè il giudizio infinito. Se prendiamo l’affermazione positiva “l’anima è mortale”, dice Kant, vediamo che può essere negata in due modi: possiamo negare un predicato (“l’anima non è mortale”), oppure (e questo è proprio il “giudizio infinito”) affermare un non-predicato (“l’anima è non-mortale”).
TRA MORTI E VIVI
Come ha fatto notare Slavoj Žižek, “la differenza è esattamente la stessa di quella, nota a ogni lettore di Stephen King, fra la frase ‘non è morto’ e la frase ‘è non-morto’”. Il giudizio infinito apre un terzo infinito e incontrollabile dominio che scalza la distinzione tra morto e vivo: i “non-morti” non sono né vivi né morti, sono i mostruosi “morti viventi”.
In altri termini, già Kant introduce un tertium (giudizio infinito) tra affermazione e negazione, che consiste nella doppia negazione. Vivo è = vivo, cioè qualcosa o qualcuno che naturalmente è diverso da non-vivo (= morto). Ma un “non-morto” è un non-non-vivo, cioè ben altra cosa da un vivo, è il fantomatico zombie, un essere che “ritorna” tra noi dopo la negazione della negazione, dopo la sua stessa morte.
TRA ARTE E PUBBLICITÀ
Già il fatto che da oltre mezzo secolo (ma forse da ben di più) i nostri sogni visivi siano assediati da torme di zombie dovrebbe farci riflettere su quale razza di vita stiamo dunque conducendo. Ma la cosa più interessante è che, nonostante film, serie tv e romanzi di fantascienza, non siamo riusciti a confinare davvero questa “figura” nel recinto irreale del nostro immaginario, dato che adesso essa ha iniziato a far parte del nostro orizzonte domestico reale. Se nel 2011 Marc Quinn aveva installato la sua inquietante scultura life-size Zombie Boy all’esterno del San Francisco Museum of Modern Art, quasi a minaccioso monito dei visitatori, oggi è la sorprendente campagna contro gli incidenti stradali imposta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a catturare il nostro sguardo distratto.
Il sorriso dei personaggi fotografati viene smentito dal claim scritto al passato (“Se avessi rallentato non sarei uscito di strada”) e sigillato da un nome serrato tra due date, di nascita e di morte, proprio come quelle di una lapide. Benché in Francia e nel Regno Unito circolassero da tempo delle pubblicità contro gli incidenti stradali interpretate da personaggi di cui solo alla fine capiamo che sono già morti, bisogna ammettere che la campagna italiana di affissioni è davvero efficace.
Non so, cioè, se sia “efficace” nel senso di rendere gli automobilisti più prudenti: certo è spaventosamente adeguata al clima del nostro tempo e anzi, in una certa misura, contribuisce a crearlo.
L’ambigua penombra da cui ci osservano questi bei volti, il loro dolce sorriso e il fatto che si tratti manifestamente di attori e non di fotografie reali di autentici deceduti sulla strada, getta una luce grigiastra sulle nostre già non brillanti esistenze: al punto che sono proprio questi zombie urbani a rubare la scena ai già spettrali, e quasi inesistenti, passanti. Come dice Orwell in 1984, “sebbene splendesse il sole e il cielo fosse d’un luminoso azzurro, nessun oggetto all’intorno sembrava rimandare il colore […] tutto si confondeva in una specie di nebbia”.
Hello zombies. Benvenuti in Oceania.
– Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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