Biografia plurale. Intervista a Virginia Ryan
La mostra inaugurata il 4 marzo al Palazzo Lucarini di Trevi costruisce un apparato biografico e artistico di Virginia Ryan, australiana, con un passato (e un presente) attivo in Africa e oggi in Italia. Ne abbiamo parlato con lei.
Giramondo instancabile, Virginia Ryan (Canberra, 1956) è protagonista della rassegna ospite, fino al prossimo aprile, della città perugina. Grazie a una formazione senza confini, geografici e culturali, nettamente definiti, l’artista nata in Australia ma cittadina del mondo ha saputo sviluppare una poetica inclusiva e proiettata verso l’altro.
Sei nata in Australia, hai vissuto per molti anni in Africa e ti sei stabilita, anche se in maniera non stabile, in Italia. Ci racconti un po’ di te e di come questo continuo viaggiare ha influenzato la tua arte?
La parola viaggio è una parola chiave nella mia vita, fa parte dei miei geni da sempre.
Sono cresciuta in Australia, prima ho vissuto a Melbourne e poi ci siamo trasferiti, da adolescente, a Canberra, anche se nel frattempo ho trascorso due anni in Italia, a Varese, dove ho frequentato la IV e la V elementare e dove ho imparato la lingua italiana. Siamo arrivati in Italia in nave, siamo partiti da Melbourne, abbiamo passato sei settimane in mare con l’Achille Lauro (all’epoca Passenger liner) per arrivare a Genova. Due anni dopo, il viaggio di ritorno, da Roma a Canberra, questa volta però in aereo. Canberra, città ancora senz’anima, l’unico grande deserto nel quale ho vissuto.
E l’Italia?
In effetti, l’Italia è stata sempre importante nella mia vita. Qui mi sono sempre sentita a casa (la mia seconda casa) sin dagli Anni Sessanta. Sono diventata cittadina italiana nel 1981. Ho passato gli Anni Ottanta e Novanta con Giancarlo, mio marito, e con i miei figli Chiara e Julian vivendo tra Alessandria D’Egitto, Roma, Brasile, Ex-Yugoslavia (durante la guerra), Scozia e Italia. In Italia la mia casa si trovava in Umbria dove ho tutt’ora la residenza e lo studio. Poi ho vissuto periodicamente in Ghana e in Costa D’Avorio per quindici anni. Alla fine direi che mi sento un’artista anche “italiana”.
Quanto ha inciso tutto ciò sulla tua identità?
La mia identità è mutevole, le memorie di Paesi, lingue, luoghi si sovrappongono. In tutto questo muoversi c’è però corrispondenza, dopotutto anche noi bianchi australiani siamo venuti da altri mondi. Nel mio caso, i miei bisnonni sono partiti dall’Irlanda intorno al 1850-60 per andare in Australia. Ho vissuto fuori dai grandi centri d’arte contemporanea occidentali, lontano dal vortex dei mercati; mi ha sempre profondamente affascinato la potenza dell’immagine ovunque mi trovassi. Sono stata considerata “straniera” per quasi tutta la vita, dovunque. E non è una debolezza, una mancanza di qualcosa, anche se a volte ti senti instabile, ma una ricchezza, un’acquisizione di una maggiore sensibilità. Spesso riesco a vedere le cose da dentro e da fuori, riesco a mettermi nelle “scarpe” dell’altra/o.
Come sei giunta alla conclusione di dover diventare un’artista?
Avevo forse sette anni e avevo trascorso qualche ora a disegnare uno spaventapasseri su un foglio A4. La suora ha appeso il disegno al muro insieme a quelli degli altri bambini prima della visita annuale della Madre Superiore, figura molto autorevole e molto temuta da noi bimbi. Ella iniziò a guardare i disegni e si soffermò davanti al mio e chiese chi fosse stato a farlo.
Non lo scorderò mai. Sentivo in lei la conferma di un desiderio segreto, che quello era il mio destino. Il mio cuore batteva forte. Certo mi fa ridere ora, ma, quando mi fanno questa domanda, è la prima immagine che mi viene in mente, quello spaventapasseri sulla parete bianca.
E poi?
Crescendo ho perso la mia strada, per poi ritrovarla frequentando l’Accademia di Belle Arti nella città di Canberra (alla quale nel frattempo mi ero abituata), dove ho poi insegnato per un breve periodo prima di partire con Giancarlo per Alessandria D’Egitto. Giancarlo lavorava come diplomatico italiano e insieme abbiamo condiviso per trent’anni la vita in quest’ambito. Quindi la vita si è basata sull’arte, ma anche sul fare cultura in un senso ampio.
A volte penso che mi sveglierò un giorno e mi renderò conto di avere imbrogliato, perché dire che si è artisti può essere troppo facile; ma io lo vivo anche come una grande responsabilità. Credo che questo succeda a tutte le persone che si fanno delle domande e che, inevitabilmente, hanno momenti di forte dubbio. Il punto è andare avanti lo stesso.
Chi sono stati i colleghi che maggiormente ti hanno influenzato? Tra questi spicca un nome su tutti Frederic Bruly-Bouabrè…
Conoscere Frederic è stato importante per me, sono stata una sua amica di famiglia. Voleva essere chiamato Papi (che per me non aveva un buon suono in quegli anni!); conoscevo bene il suo lavoro prima di arrivare ad Abidjan, il suo percorso per trovare un identità da giovane artista/inventore e burocrate in un Paese franco-coloniale, e sapevo della sua collaborazione con Alighiero Boetti. Mi affascinava la misura “cartolina” delle sue opere perché suggeriva la facilità con la quale esse potevano girare il mondo in una valigia per poi entrare in contatto con migliaia di persone – mentre lui, uomo Africano, aveva sempre bisogno dei visti sul passaporto – e sappiamo come vanno a finire spesso queste storie. Il tema delle valigie ritorna nel laboratorio MakeArtNotWalls/Italia intitolato The Art of Migration. Anche nell’ambito della mostra a Trevi, le valigie come contenitori per piccole opere hanno un ruolo importante. Questa rassegna è in collaborazione con alcuni ragazzi richiedenti asilo.
Quali altri artisti ti hanno affascinato?
C’è una preziosa costellazione di artisti poco conosciuti internazionalmente con cui ho instaurato legami di collaborazione e stima. Mi attira la costruzione di art worlds – per usare un termine tratto da un libro del sociologo Howard Becker – più che focalizzarmi sui singoli artisti. Detto questo, sono stati importanti gli incontri con artiste come Naima El Shishiny ad Alessandria D’Egitto nel 1983, Raul Cruz (morto giovanissimo di Aids nel 1993) del gruppo Geração 80 a Curitiba, in Brasile, artisti in Africa nei posti più lontani come il pittore Cyprien Tokoudagba ad Abomey, in Benin, o Kwame Akoto a Kumasi, in Ghana. Precursori della nuova generazione di artisti contemporanei iper-connessi grazie ai social media, sono stati fondamentali nel mio percorso di apprendimento del fatto che il mondo occidentale/bianco non rappresenta la normal default position.
Con l’Africa mantieni sempre un rapporto speciale.
Sì, nel senso di lealtà, consapevolezza: nessuno spazio alle illusioni o agli stereotipi.
Con l’ultimo ciclo di opere, come dicevo, prodotto nel mio studio italiano nel 2015/16, ed esposto nella personale I Will Shield You alla galleria Montoro12 a Roma nel maggio 2016, questo “rapporto speciale” era ben evidente. Le opere rimandavano a un’estetica di assemblage e intrecci dove “i materiali si trasformano in una sorta di organismo vivente”, come ha scritto il critico britannico-ghanese Osei Bonsu. La mia special relationship con l’Africa occidentale non è colonialista e neanche post-colonialista. La mia arte miscela, riproduce e trasforma in un continuo dialogo con memorie liquide, trasmettendo una visione che mira a essere autentica e non eurocentrica.
Ci sono dei progetti che stai portando avanti lì?
Per il momento ho deciso di concentrarmi sul lavoro in Italia. Nonostante ciò, va avanti The Foundation for Contemporary Art da me fondata nel 2004 ad Accra e sono in contatto con colleghi nel mondo dell’arte africana. Il futuro è aperto.
Ci parli della mostra a Palazzo Lucarini?
È la prima rielaborazione sistematica in Italia dei materiali prodotti fra Ghana e Costa d’Avorio. È esposto un corpus di opere “formalmente eclettiche ma coerenti nell’intuizione fondante” in una mostra coadiuvata da due curatori di formazione diversa, Ivan Bargna (antropologo dell’arte) e Maurizio Coccia (storico dell’arte). Il catalogo contiene anche testi di Mara Predicatori e Manuela De Leonardis, la quale ha condiviso alcune esperienze africane con me. Sempre il 4 marzo è stata inaugurata la mostra The Art of Migration – nel chiostro della Pinacoteca di Trevi, a cinque minuti da Palazzo Lucarini.
In cosa consiste?
È una mostra complementare dove sono installati i risultati spesso sorprendenti di un laboratorio artistico creato con alcuni profughi provenienti dalla Guinea, dal Mali, dalla Nigeria, dal Ghana e dal Gambia, un laboratorio d’arte che ho fondato nel settembre 2016 in collaborazione con Julia Perry. Credo che i migranti abbiano la necessità di esprimere il loro vissuto. Il loro non è un non-stato, un eterno aspettare, ma un momento da vivere pienamente.
Questa tua vita di spostamenti, di incontri, di viaggi che cosa ti ha donato, soprattutto se parliamo di pratica artistica?
Spero, la capacità di vedere oltre i confini culturali e geografici, e la consapevolezza delle interconnessioni. Vorrei che la mia pratica artistica parlasse di questo.
E invece cosa senti di aver perso?
Un contesto geograficamente gestibile; un’identità più circoscritta con frontiere definite. Non vengo da una “scuola”/città/Paese, da una posizione fissa per decenni che aiutano a costruire una biografia più facile per critici/storici/curatori. Però perdendo ho guadagnato una vita inaspettata.
C’è qualche progetto che hai nel cassetto e che non hai mai realizzato?
Decisamente sì, ma i cassetti sono un altro continente. Per ora sto ferma, non vado a frugare.
– Santa Nastro
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