L’abuso del bello. L’editoriale di Marcello Faletra
In un’epoca sempre più tormentata da guerre e disastri, il termine “bellezza” è sempre più abusato, frammentandosi in una miriade di accezioni non sempre coerenti.
Negli ultimi anni circola una strana ansia verso una vaga idea di bello. Si fanno festival in nome della bellezza. Si organizzano seminari, mostre, incontri con artisti, filosofi, in nome della perduta bellezza. Si chiede al bello un rimedio contro il “brutto” che serpeggia nella nostra società. Il credito che ha questa parola – bellezza – invocata da più parti è tale da confondersi con una specie di messianismo. D’altra parte la bellezza come significante è sempre disponibile, su richiesta. Ogni volta che un termine sale sulla scena della storia e s’impone come attore principale, è sempre utile capire il copione che sta recitando, o la funzione sociale che gli è rifilata. E l’attuale inflazione della parola “bellezza” è il sintomo di qualcosa che va ben al di là del suo arbitrario significato.
“Per Goebbels, ministro della propaganda nazista, era bello il boschetto caro a Goethe – Buchenwald – che trasformò in una sede dello sterminio degli ebrei“.
L’abuso di questa parola, che dopo l’Illuminismo sarà intesa come “promessa di felicità” (Schelling, Stendhal, Baudelaire, fino ad Adorno), la abbassa a gergo pubblicitario. Recita un ruolo abbandonato dall’arte moderna che da Rimbaud arriva fino alle porte del contemporaneo, per farsi strada nel vuoto del linguaggio che governa la comunicazione ad alto tasso di irradiazione informatica, dove il significato coincide con il valore operazionale. In tal senso sarebbe bello ciò che funziona meglio di qualcos’altro.
Per Goebbels, ministro della propaganda nazista, era bello il boschetto caro a Goethe – Buchenwald – che trasformò in una sede dello sterminio degli ebrei. Bello naturale e valore di purezza razziale convergevano nell’ideale di bellezza nazista. Un’espressione di Walter Benjamin coglie bene l’ambiguità di certe parole investite di un valore culturale come quello di bellezza: “Non c’è un documento di cultura che non sia allo stesso tempo un documento della barbarie”. Per Sam Rodia – un autentico anartista, come avrebbe detto Duchamp – era bella invece la sua indefinibile torre alta trenta metri, a cui non dava alcun valore. Mentre per quel turista che davanti al Partenone esclama “Che bello! È beige, il mio colore preferito!”, gli è inconcepibile un bello che contemplava il tragico. In un mondo abbrutito da guerre, disastri economici e catastrofi ambientali, la parola “bellezza” somiglia a quelle prostitute che i film western mettono in scena nei saloon: abbelliscono la crudeltà dei gangster che se le danno a suon di pistole, soddisfacendone poi i bisogni. Ma ricompensate con un pugno di dollari.
– Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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