Corpi al femminile. Intervista a Lea Vergine
Parola a uno dei nomi cardine della critica d’arte italiana, autrice di una profonda riflessione sulle vicende della Body Art. Con uno sguardo attento alle dinamiche della creatività al femminile.
Un momento importante nella storia della critica d’arte italiana è stato il libro di Lea Vergine sulla Body Art [mentre è recentissima l’uscita de L’arte non è faccenda di persone perbene, conversazione con Chiara Gatti edita da Rizzoli, N.d.R.]. Lavoro di stampo storico-artistico, ma soprattutto lucida analisi teorica, tra le prime iniziative di scrittura critica che nel nostro Paese hanno saputo coniugare psicoanalisi e arte. Come nel caso di Body Art e storie simili, molta della critica femminile dell’epoca – ma anche successiva – è associata a tematiche come quelle del corpo, della performance e dell’identità. A sua volta la performance è stato un mezzo privilegiato dal genere femminile nella produzione artistica. E oggi sembra che alla performance come linguaggio già canonico e storicizzato si aggiungano riflessioni ancora più radicate al genere (soprattutto femminile, omosessuale e queer) e all’identità politica (soprattutto post-coloniale).
Abbiamo chiesto a Lea Vergine se tutto questo sia riferibile a una diversa sensibilità femminile o semplicemente a un atto poetico di insubordinazione psicologica (e anche economica) delle donne rispetto agli uomini.
“Lo dice lei stessa che la performance è un linguaggio già storicizzato. Non è che negli ultimi venti anni siano venute fuori cose prodigiose. Possiamo considerare Matthew Barney rappresentativo della Body Art? Direi di no. E così per Francesco Vezzoli o Sislej Xhafa o Vanessa Beecroft. Non credo che la Body, durante il periodo più interessante e produttivo, cioè gli Anni Settanta e primi Ottanta, sia stato un modo di esprimersi tipico del genere femminile. Basti pensare a Günter Brus, a Giuseppe Chiari che suonava con il corpo il pianoforte, a Michel Journiac, a Gilbert & George, a Urs Lüthi ecc. Così come non penso che la ‘diversa sensibilità femminile’ abbia avuto bisogno, per affermarsi in questo campo, di un’insubordinazione psicologica nei riguardi del maschile. Che poi ci siano state, da Gina Pane a Katharina Sieverding, grandi personalità in questo campo, è certo innegabile, ma mi sembra un avvenimento lontano da qualsiasi conflitto con il maschile. Credo che quello che si può chiamare Body Art sia stato un fenomeno d’avanguardia, rispondente a una necessità di comunicazione di quegli anni e, pertanto, oggi esaurito, come confermano molti epigoni.
Quali sono state le riflessioni più interessanti emerse dalla mostra L’altra Metà dell’avanguardia, 1910- 1940? E quali, se ci sono stati, gli aneddoti più significativi delle vicende artistiche femminili appartenenti alle prime avanguardie?
Questo non è un illuminato lager che ospita una comitiva di “dame col renard” per istituzionalizzare il genere “pittrici e scultrici”. L’altra meta dell’avanguardia, la faccia altra della medaglia, è costituita da sperimentatrici geniali, infaticabili promotrici di cultura esse stesse, e il territorio che ci si para davanti, il grande affresco, non è mai opaco poiché le opere, sommandosi, incrociandosi, finanche contrapponendosi nei luoghi e negli anni, restano emblemi audaci di un’articolata condizione umana, realizzati con quella non pietas che butta a mare il concetto di normalità. Illibate no, non lo erano, giacché furono partigiane. Allogene e meteche, sì. Molte di esse ebree, altre omosessuali, altre ancora non estranee al mondo della pazzia per aver attraversato la pazzia del mondo: tutte le devianze insieme hanno fruttato una somma di eccellenti eversioni. Qui non v’è posto per stucchevoli madrigali o per leziose semplicerie di collegio; qui è palese una forza squassante, ragioni di schianti e di esaltazioni. Il che sta a significare il vigore di una posizione rivoluzionaria e non rivoltosa che ha innovato, con pienezza di autocoscienza.
C’è stato nei decenni a seguire qualche tentativo di continuare tale ricerca, di analizzare e portare allo scoperto il ruolo delle donne nel sistema dell’arte contemporanea?
Purtroppo solo piccoli tentativi e ancora oggi c’è molta confusione. Avrei sperato, ai tempi, che si fosse sviluppato un maggiore interesse per lo studio di questi meccanismi.
Fra le artiste delle ultime generazioni, in chi trova operazioni interessanti?
Tania Bruguera, Monica Bonvicini, Marzia Migliora e molte altre. Mi pare che la situazione delle quarantenni, a livello internazionale, sia molto ricca.
Mariangela Gualtieri si definisce “poeta e non poetessa” e dichiara in un’intervista: “Mi piace pensare che la parola poeta sia nell’ordine di ‘asceta’, di ‘atleta’, di ‘musicista’, parole ambivalenti per entrambi i generi e così belle vicino a ‘poeta’. L’arte pesca da una profondità nella quale i generi sono un dettaglio, pesca lì dove si è molto simili, in un comune fare anima che sta prima del nome e del genere”. Lei cosa ne pensa?
Tutto il bene possibile.
In Autoritratto Carla Lonzi ammette di non sentirsi più legittimata in una posizione come quella di “critica” o di teorica dell’arte, nel momento in cui riconosce nel lavoro degli artisti, nelle conversazioni che intrattiene con essi, nel loro operato un autentico atto critico e dunque riconosce una certa superfluità della sovrastruttura del critico, tanto da non trovare più una propria collocazione nel mondo dell’arte e da ritirarsi da esso per dedicarsi ai suoi scritti di Rivolta femminile. Come considera tale scelta?
Carla Lonzi ha fatto una scelta personale che riguardava il suo equilibrio nel mondo, non solo in quello dell’arte. Scelta dettata da problemi interiori. Era una persona molto intelligente ma troppo disturbata da problemi quasi psicotici.
A quale artista donna penserebbe se dovesse curare una mostra personale?
Da Marthe Tuor-Donas a Meret Oppenheim e alle sunnominate nella risposta alla domanda fatta sopra.
– Sonia D’Alto
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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