Gli scatti di Fabio Bucciarelli inaugurano Mudima Lab. A Milano
Mudima Lab, Milano – fino al 29 aprile 2017. La mostra del fotoreporter torinese fondatore della cooperativa MeMo inaugura la nuova sede espositiva milanese dedicata alla fotografia, con un target innovativo e una forte impronta etica. Ecco l'intervista a curatori e fotoreporter.
Il 7 marzo scorso ha aperto Mudima Lab, costola di Fondazione Mudima dedicata alla fotografia. GUERRE è il titolo del progetto che inaugura il primo ciclo di mostre, sei esposizioni personali e un libro finale per descrivere l’intera esperienza. Abbiamo rivolto qualche domanda ai curatori Irene Di Maggio e Fabio Mantegna, e all’autore della prima mostra, The Dream, Fabio Bucciarelli (torinese, classe 1980, vincitore del Robert Capa Gold Medal, del World Press Photo, del Bayeux Calvados e di Picture of the Year), dal 2011 impegnato a documentare le conseguenze umanitarie delle guerre e la mancanza dei diritti umani nelle zone di conflitto in Medio Oriente, Africa ed Europa.
Perché Mudima “Lab”?
Perché siamo “figli” della Fondazione Mudima, ma in questo spazio espositivo siamo autonomi, indipendenti e l’obiettivo è sperimentare e dare un’idea di “movimento”, come in un laboratorio appunto. Questo almeno è il desiderio.
Perché inaugurare lo spazio scegliendo un tema così scomodo?
Abbiamo riflettuto su quale fosse la fotografia che avremmo voluto esporre, e in questo momento storico secondo noi non ce n’era altra se non il reportage di guerra, anzi di guerre, così vicine e che ci riguardano in prima persona.
Com’è nata la collaborazione con MeMo?
Abbiamo proposto a Fabio Bucciarelli di essere tra i fotografi che avrebbero esposto da noi nell’ambito del progetto GUERRE, e lui ci ha parlato di MeMo e delle iniziative della cooperativa a favore dei fotoreporter freelance, una professione che prevede molti rischi e che non sempre viene supportata economicamente in modo adeguato.
A quale pubblico e a quale mercato vi rivolgete?
Al più ampio pubblico possibile, perché per noi la parte divulgativa e di informazione è di primaria importanza. Detto questo, proprio per l’esperienza della Fondazione Mudima all’interno dell’arte contemporanea, vorremmo coinvolgere anche il pubblico più specializzato nell’arte verso un ambito, quello foto-giornalistico, che sembra ancora distante dai circuiti legati all’arte.
Che tipologie di eventi e iniziative intendete proporre, in parallelo agli allestimenti espositivi presso Mudima Lab?
Ci piacerebbe creare degli incontri, dei momenti dedicati al dialogo fra il pubblico e i fotografi in mostra, con la presentazione dei loro libri, qualora ci fossero, oppure sotto forma di un racconto dell’autore, con la possibilità da parte delle persone di approfondire aspetti del lavoro e della vita dei fotoreporter parlando direttamente con loro. In futuro vorremmo incrementare tutto questo con workshop di perfezionamento di fotogiornalismo in zone di conflitto.
Fabio Bucciarelli, in quale lasso di tempo sono state scattate le fotografie in mostra? Cosa accomuna o dà uniformità stilistica ai diversi lavori esposti?
Il progetto è iniziato nel 2011 e il libro The Dream è stato pubblicato da FotoEvidence a maggio 2016. Il fil rouge dei diversi lavori sono le conseguenze delle guerre e, in particolare, la nascita di un grande popolo migrante. Il mio intento è liberarmi dello stereotipo espressivo, per raccontare il sogno di uscire dalla guerra (un sogno che per i migranti diventa realtà) con un linguaggio fra il fotogiornalismo e la ricerca artistica.
Quando ha preso forma l’idea?
Nel 2011 stavo documentando i principali conflitti in Africa e Medio Oriente, mostrando al mondo le crudeltà della guerra e i suoi effetti sulle popolazioni civili, improvvisamente unite da un unico e beffardo destino, quello del più grande esodo di migranti e rifugiati dopo la Seconda Guerra Mondiale. La guerra mette a nudo i sentimenti dell’essere umano, e in questa ricerca dell’umanità nella tragedia, focalizzandomi sull’individuo anziché sulle masse, ho trovato il punto di partenza per un lavoro personale durato cinque anni. The Dream vuole essere un tributo empatico alla condizione universale di chi ha perso tutto tranne la capacità di sognare, di lasciarsi la guerra alle spalle, di poter cambiare la vita dei propri figli. Il sogno diventa così il vero motore di questo enorme esodo, il punto chiave della storia.
Nel nostro tempo, anche a causa dell’iperproduzione mediatica, l’orrore della guerra è diventato banalità, l’emergenza è normalizzata. In che modo cerchi di risvegliare lo sguardo di chi osserva le tue fotografie?
Nel corso del 2015 la saturazione dell’immaginario visivo sul tema aveva provocato non solo apatia, ma addirittura rigetto. Da questo punto di partenza ho deciso quindi di sviluppare immagini più oniriche, allontanandomi da un approccio prettamente fotogiornalistico a favore di un linguaggio più concettuale. Anche l’uso della Pinolina si rifà a questo intento. Così come l’idea di realizzare la cover del libro usando i giubbotti salvagente cuciti dagli stessi profughi. È responsabilità di noi fotografi trovare sempre nuovi mezzi espressivi, perché la gente sia stimolata a pensare e riflettere sulla condizione del mondo.
Una serie di immagini in mostra ritrae alcuni oggetti che i profughi si portano nella traversata. Dove hai realizzato questi scatti? Cosa ti ha spinto a scegliere questo soggetto?
L’origine di questo lavoro è un assignment per il New York Times effettuato a Milano presso LABANOF, laboratorio di ricerca che stava cercando di far combaciare i dati relativi a migranti morti e migranti scomparsi. Un lavoro editoriale sugli oggetti trovati, come reliquie, nelle tasche dei defunti. Oggetti nei quali noi stessi ci riconosciamo, come orologi, cellulari e portafogli.
Che tipo di manipolazione c’è nelle immagini in mostra, a livello di post-produzione?
Con manipolazione si intende l’alterazione della realtà, ed è una pratica bandita dal mondo del fotogiornalismo. Non parlerei quindi di manipolazione, ma di semplice post-produzione. Per quanto riguarda le immagini scattate con foro stenopeico, il processo è prettamente analogico; va dallo sviluppo alla pulizia dei negativi, dalla scannerizzazione alla postproduzione e infine la stampa.
Che rapporto c’è tra la tua fotografia e la tua scrittura?
Scrivo reportage dal 2011. Nel 2012 ho pubblicato L’odore della guerra sul conflitto libico con Stefano Citati. Scrivere per me è una forma espressiva complementare alla fotografia.
In un’intervista dici che nei luoghi in cui hai lavorato come fotoreporter la realtà va oltre l’immaginazione. Il “dream”, la speranza che ritrai è realtà o immaginazione?
Il ruolo di un giornalista è la ricerca della verità, e in guerra questa ricerca è ancora più complicata. In The Dream, le immagini descrivono sia il sogno che la realtà, diversa dalla speranza. L’accostamento di questi diversi linguaggi fotografici, giornalistico e artistico, è finalizzato a esaltarne reciprocamente la forza.
Secondo Karl Jaspers, l’angoscia è il fondamento della speranza. Per te la paura e la speranza che legame hanno?
La paura può essere il motore verso un cambiamento, una speranza.
Quali sono i tuoi progetti a venire, con MeMo e come fotoreporter?
Nei prossimi mesi, con MeMo parteciperemo a una serie di fiere d’arte come AIPAD a New York e Photo London, oltre che diverse esposizioni in Spagna e in Italia. Sto lavorando su diversi progetti a lungo termine sia in Africa che in Medio Oriente, dove sto documentando e raccontando storie, attraverso una continua ricerca su linguaggio utilizzato, una sottile linea tra fotogiornalismo e fotografia artistica.
– Margherita Zanoletti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati