Seung-Hwan Oh – Impermanence
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Comunicato stampa
L’ESTETICA DEL CAOS
La fotografia, fin dalla nascita, si è segnalata per la sua capacità di immobilizzare una frazione di tempo, trascriverla su un supporto e regalarla, intonsa, al futuro. Non sempre questo è vero e già Henry Fox Talbot aveva constatato come le stampe originali che aveva incollato sul suo libro “The Pencil of Nature” (1844-1846) tendevano a sbiadire. Da queste considerazioni parte la ricerca di Seung_Hwan Oh: osservando come una fotografia mal conservata venga aggredita da microorganismi che, divorandone casualmente alcune parti, creano nuovi, mirabolanti effetti, ha realizzato un lavoro carico di rimandi non solo estetici. Se, infatti, siamo di fronte a un errore (di conservazione, in questo caso), possiamo disperarci di fronte alla fatale perdita di un originale oppure ricordare di come la storia stessa della creatività in fotografia abbia preso impulso da sbagli, sviste, abbagli non ricusati ma fatti propri. Il fotografo coreano comprende subito le potenzialità espressive di questi primi piani di persone che, al di là dell’apparenza che le vorrebbe solo “rovinate”, segnano inaspettati confini espressivi. A questo punto si interroga sul suo ruolo perché il passaggio da quello di osservatore a quello di autore necessita di un preciso salto di qualità e Seung_Hwan Oh lo realizza facendo ricorso ancora una volta al tempo. Controlla lo sviluppo, scommette sul suo andamento, si ferma infine quando occorre, lasciando così il segno della propria presenza autoriale. Decidere di riprodurre proprio quella precisa fase del processo di corruzione della superficie fotografica e non quelle che la precedono o seguono significa dunque stabilirne una nuova identità che andrà a sostituirsi a quella dei soggetti ritratti. Questa è la ragione per cui ogni opera è diversa dalle altre. In alcuni casi ancora si intravedono e si riconoscono i contorni dei corpi, in altri la superficie è attraversata da lampi, svaporata, raggrinzita da saette che si ramificano, smangiata fino a far emergere squarci di magenta, schizzi di ciano, vortici di giallo. Improvvise appaiono forme mostruose che attraversano lo spazio come se vi strisciassero sopra, lo intersecano spandendo sciabolate di luce, lo aggrediscono aspirandone parti che si spandono liquide in un turbinio di piccolo gorghi. Capita, inoltre, che il lavorio cui le superfici sono sottoposte diventi misteriosamente delicato e vada quindi a inseguire le forme flessuose del corpo in volute tenui che è come accarezzassero la pelle, sottoponendola sì a qualche tensione ma assumendo una inedita ritrosia nello scalfirla profondamente. E’ il lavorío del caos di fronte al quale rimaniamo spettatori incuriositi e affascinati.[...]
Roberto Mutti