L’immagine secondo Craigie Horsfield. A Lugano
MASI, Lugano – fino al 2 luglio 2017. Parola all’artista inglese, ospite della sede svizzera con una mostra che riflette sull’immagine fotografica e sulla natura delle relazioni sociali. Fra ritratti, paesaggi e nature morte.
MASILugano, in collaborazione con il Centraal Museum di Utrecht, propone un’ampia mostra di Craigie Horsfield (Cambridge, 1949), artista raffinato e complesso, che indaga in particolare i temi della relazione sociale e della “lunga durata”. La sua è anche una riflessione sulla natura dell’immagine fotografica. I suoi sono ritratti, nature morte, paesaggi, immagini di gruppi, i soggetti della fotografia classica.
Alcuni dei lavori in mostra sono stati appositamente realizzati: opere di grandi dimensioni, arazzi ma anche stampe fotografiche. Fondamentale è il ruolo della musica, di cui Horsfield è attento e appassionato ascoltatore. Il percorso espositivo include una nuova opera sonora composta e mixata dall’artista insieme al compositore e musicista Reinier Rietveld, con il quale collabora da molti anni. Si tratta di una rassegna che prevede tempi lunghi di visita e di assimilazione rispetto a una ricerca che non è possibile collocare all’interno di tendenze, movimenti, mode.
Sempre, quando mi trovo di fronte alle tue opere, percepisco una sorta di spiritualità laica.
Penso che questo sia molto importante. Non sono un uomo religioso, ma credo nel concetto stesso di fede. Da dieci anni sto lavorando alla stesura di un testo intitolato La traduzione delle anime, in cui anima è da intendersi come energia vitale che è in ognuno di noi. È un’indagine nei confronti delle persone da me ritratte, è l’energia che le varie persone con le quali ho lavorato mi hanno trasmesso, come in un flusso continuo di sensazioni. Mi piacerebbe che le persone guardassero le mie opere con uno sguardo amorevole, di comprensione.
Nelle tue nature morte mi pare di percepire un senso di vanitas. È corretto?
Sì e no. La vanitas riguarda un aspetto più ampio rispetto alla mera apparenza. Mi interessa l’idea che il mondo, quando lo esperiamo, sia il più delle volte indifferente alla nostra esperienza. Se batto un colpo con la mano sul pavimento, io mi faccio male, ma al pavimento nulla succede.
I ritratti sono per te conversazioni, condivisioni, scambi con i tuoi soggetti.
Sono molto felice che tu abbia letto questo. Ognuno dei miei lavori di questo tipo è a quattro mani. Il ritratto non assomiglia alla persona, ma rimanda a quel particolare momento della vita della persona, è come se fosse il ritratto della relazione che si sviluppa tra me e quella persona.
Le opere inoltre continuano a vivere, a crescere anche negli occhi di chi le guarda, come affermava Mark Rothko.
Vi è una difficoltà a comprendere l’individuo in rapporto alla società. Quando si parla della coscienza, per esempio, la si immagina come qualcosa che appartiene al singolo individuo, in realtà appartiene a una relazione di due o più individui. Fare un ritratto significa condividere, pensare insieme.
Tra i lavori in mostra mi paiono particolarmente interessanti quelli dedicati a El Hierro l’isola più piccola delle Canarie, collocata all’estremo sud ovest. Oltre si giunge in America.
Al tempo dei Romani, ne aveva parlato Plinio il Vecchio, si pensava che oltre quell’isola ci fossero solo caos e oscurità: la fine del mondo. È un luogo molto duro, in cui vige un’economia di sussistenza. Mi hanno catturato queste atmosfere all’ora del tramonto, quando il vento si alza dal mare e le onde sbattono contro le scogliere altissime. L’uomo è immerso nelle nuvole. C’è un momento d’incontro tra il giorno e la notte molto intenso. Mi ha interessato l’idea dell’oscurità che ingoia tutto.
Mi viene in mente l’Ulisse dantesco, che pecca di hybris, di tracotanza, perché vorrebbe varcare le colonne d’Ercole.
Esatto, è così. Il paesaggio di quest’isola è come un monumento abbandonato. Ci sono persone con cui sono entrato in relazione, che vivono lì, le quali per andare da un posto all’altro fanno immani fatiche. È una terra lavica, rocciosa. Per loro è tutto naturale, però, perché non conoscono altro modo di vivere.
Mi piacerebbe parlare dei tuoi arazzi, da quello con Ground Zero a quello con i portatori della Festa dei gigli a Nola. Giusto una curiosità: conosci gli arazzi dei mesi del Bramantino a Milano?
Sì, certo, li conosco. Ma non mi importa fare un pastiche storico, le mie non sono mai citazioni. La storia è il presente di chi lo vive. Noi non possiamo avere la coscienza di come erano le cose in quel preciso momento. Ogni epoca ha una concezione diversa del passato. È importantissimo leggere e conoscere anche quello che c’è stato prima, però non deve diventare una formula da ripetere. Mi interessa l’esplorazione dei processi attraverso i quali cerchiamo di comprenderci l’un l’altro e di esistere insieme. La cosa più importante è, infatti, riuscire a comprendere il tempo in cui si vive, le relazioni, le connessioni, i rapporti con il resto del mondo
– Angela Madesani
ha collaborato Silvia Gazzola
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