Morto James Rosenquist, pioniere della Pop Art. Un genio dell’immagine contemporanea

Insieme a Andy Warhol e Roy Lichtenstein aveva contribuito alla nascita di un fenomeno epocale: la Pop Art americana avrebbe cambiato le sorti del sistema e del mercato dell’arte, incarnando le evoluzioni della società occidentale. James Rosenquist se ne va, all'età di 83 anni.

Tra le sue tele più note c’è il gigantesco F-111, 23 pannelli dipinti a olio per una superficie di circa 3 metri per 26. Con questo manifesto di un’America convulsa, dominante e contraddittoria, James Rosenquist rivestiva nel 1965 le pareti della galleria Leo Castelli, a Manhattan. Un’immagine conturbante, clamorosamente superficiale – nel senso di filosofia della superficie e del simulacro – in cui l’artista mescolava l’orrore della guerra e il volto patinato della società dello spettacolo. Così, un iconico cacciabombardiere F-111, tecnologicamente avanzato, conviveva con la memoria oscena del fungo atomico e con diversi simboli del consumismo, restituiti in un tripudio di colori sgargianti: spaghetti al ketchup, lampadine, ombrelloni, automobili, copertoni, una bimba sotto a un casco asciugacapelli. Sorta di mega collage in pittura, in cui tutto galleggiava sullo stesso piano, tra finestre uguali e giustapposte: se vogliamo, un presagio dell’Occidente nell’era di Internet e dei social network.
Rosenquist – che col sex appeal della merce e con quelle pennellate piatte, sintetiche, avrebbe contribuito alla nascita della Pop Art – si è spento oggi, 1 aprile 2017, all’età di 83 anni, dopo una lunga malattia.

James Rosenquist, President Elect, 1960-61/1964, olio su masonite, 228 x 365.8 cm. Centre Georges Pompidou, Parigi. Photo courtesy of James Rosenquist

James Rosenquist, President Elect, 1960-61/1964, olio su masonite, 228 x 365.8 cm. Centre Georges Pompidou, Parigi. Photo courtesy of James Rosenquist

UN PIONIERE DELLA POP ART. FRA SEDUZIONE E ORRORE

Rosenquist era nato il 29 novembre del 1933 a Grand Forks, in Dakota, e si era trasferito a New York verso la metà degli Anni Cinquanta, cominciando a frequentare i maestri dell’Espressionismo Astratto, e poi gente come Ellsworth Kelly, Agnes Martin, Robert Rauschenberg, Jasper Johns. Ma i suoi compagni d’avventura e di rivoluzione sarebbero stati, su tutti, Andy Warhol e Roy Lichtenstein: tre pionieri straordinari, nel cuore dell’America del Vietnam, della réclame, di J.F. Kennedy (protagonista di un altro suo celebre pezzo, oggi conservato al Centre Georges Pompidou), dell’ossessione televisiva e dell’usa-e-getta come valore economico (e dunque culturale). L’universo di Rosenquist assomigliava a una celebrazione dell’effimero talmente spinta da rasentare l’orrore, la claustrofobia. Un giganteggiare radioso di immagini vuote, veloci, elette a feticci di un nuovo credo collettivo: mega rossetti puntati come proiettili, arsenali di stoviglie e cibi fast-food, fiori di plastica, congegni meccanici, frammenti di corpi, pistole, billboard.

James Rosenquist, The Facet, 1978

James Rosenquist, The Facet, 1978

E nel trionfo di una sintesi grafica che uccideva ogni pretesa di spessore, di narrazione, di empatia, la pittura diventava fumetto, pubblicità, ostentazione dell’oggetto e poi incipit di astrazione: come in un moto centripeto, la giostra del presente giungeva a sfaldare le immagini e le cose, tramutando l’eccesso di visione in una strana cecità. Tutto e niente, in una ubriacatura percettiva figlia della modernità ipertecnologica.
Tuttavia, a proposito di Pop, ci teneva a fare le dovute distinzioni: “Non sono come Andy Warhol“, aveva affermato in un’intervista del 2007. “Lui ha fatto bottiglie di Coca Cola e panni Brillo. Io ho usato immagini generiche senza marchio per fare un nuovo genere di pittura“: più che la simulazione del mondo, così come il mercato lo stava raccontando e confezionando, si trattava di una nuova genesi pittorica, in cui l’oggetto comune – e non il brand – fossero pretesti per ripensare il mondo stesso e la sua rappresentazione.

Illuminante questo suo statement, tratto dal suo libro di memorie e riflessioni sull’arte “Painting Below Zero: Notes on a Life in Art” (2009): “Ho spinto il mio intrinseco interesse per l’astrazione, dentro immagini prive di un bagaglio di immagini, e ho spinto il colore e la forma intorno per creare la superficie più eccitante che potessi immaginare, provando a tirare fuori la luce da un pezzo di carta. Un pezzo di carta è bianco e vuoto, ma se tu ci metti ogni molteplicità di colori nelle giuste combinazioni, la luce si irradierà da esso. Come luce che trabocca da una tazza“.
Nel 2016 Rosenquist era stato protagonista di una grande retrospettiva parigina, alla galleria Thaddaeus Ropac, mentre in occasione della mostra From the collection: 1960-69, conclusasi lo scorso 19 marzo al Moma di New York, a incarnare il mito della Pop Art c’era – tra molte opere iconiche dell’epoca – proprio il suo F-111, custodito nella collezione del museo. Un monumento al Capitalismo e alla sua schizofrenia implosiva, eccitante, minacciosa.

– Helga Marsala

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

Scopri di più