Versus. Il dibattito fra site specific e white cube
Ancora un dialogo tra due artisti per la rubrica “Versus”: Gian Maria Tosatti e Luca Bertolo mettono al centro della discussione le strategie espositive e le modalità di display. In che modo l’installazione site specific o la collocazione nel tradizionale white cube influenzano il rapporto con il pubblico e la fruizione dell’opera?
Il format “mostra” attraversa un momento di crisi: si sperimentano nuove forme di condivisione del discorso sull’arte, basate sulla partecipazione e sull’abbattimento delle barriere culturali. In quest’ottica, i musei e le gallerie, con i loro ambienti progettati per dar voce alle opere e bandire ogni elemento di disturbo, potrebbero apparire sterili, freddi e poco inclusivi. Eppure esiste, fa parte dell’uomo e non si può cancellare, una dimensione pura e personale nella quale l’arte conserva uno statuto autonomo. Chi cerca un rapporto intimo con l’opera, simile all’amore o al sentimento religioso, predilige gli spazi incontaminati. Ottavo appuntamento con la rubrica Versus: sul ring ci sono Gian Maria Tosatti e Luca Bertolo.
Premesso che ogni lavoro richiede scelte diverse e mirate, in genere preferite esporre in luoghi che hanno una loro storia e un’identità fortemente connotata, oppure in ambienti asettici, racchiusi tra pareti bianche?
Gian Maria Tosatti: In realtà la storia dei luoghi nella mia idea di site specificity è del tutto irrilevante. In dieci anni l’ho sfruttata una sola volta. Tutte le altre ho inventato un’altra storia che ridefinisse del tutto l’identità del luogo. La ragione però per cui trovo interessante agire su spazi della vita è l’aiuto che questo mi dà nell’abbattere ogni diaframma tra l’arte e la vita. Abbiamo tolto la cornice, il piedistallo, ma questo non basta ancora, rendere l’opera perfettamente e completamente solubile dal punto di vista esperienziale fa sì che si possa renderla indistinguibile da qualsiasi altra esperienza esistenziale. Le persone entrano nei miei lavori, non sapendo nemmeno – spesso – che si tratta di un’opera. Ci si accede per porte aperte in mezzo a una strada, senza indicazioni… A onor del vero, però, questo non serve ad aiutare l’opera – che sempre riesce a darsi nella sua vitale purezza anche dentro la più pesante delle cornici – ma ad abbattere una serie di autodifese del visitatore facilitando la sua esposizione all’opera stessa.
Luca Bertolo: Nella maggior parte dei casi ho esposto in gallerie e musei, spazi abbastanza banali. In genere mi ci trovo bene. Pareti bianche, paciose, un po’ stupide forse, ma inoffensive. Ciò detto, ambienti con una forte identità possono essere per me persino più stimolanti dei cosiddetti white cube. Il punto cruciale riguarda l’idea del fare per: difficilmente riesco a produrre un’opera per un luogo. Ci ho provato, ma quasi sempre escono delle banalità. Spessissimo site specific significa target specific, cioè produrre un dispositivo estetico che funzioni su un piano culturale (politico, sociologico, antropologico, ecc.) secondo strategie e per obiettivi prestabiliti. Arte come sottogenere di comunicazione, una prospettiva che trovo nefasta.
Gian Maria punta alla fusione tra arte e vita. Luca è scettico riguardo alla possibilità di indirizzare verso fini pratici l’operare artistico. Di certo l’uomo vive una scissione interiore: ha un lato sociale (pragmatico, razionale e politico) e uno introspettivo (spirituale, sognatore e poetico). Pensate sia opportuno sovrapporre i due piani? Ogni essere vivente ha la necessità di mangiare e di respirare per vivere. Ma può cibarsi d’aria? Si può fare arte per strada e politica nei musei e nelle gallerie?
G. M. T.: L’uomo è un animale politico e l’arte è il dispositivo della rivoluzione. Parlo di una rivoluzione spirituale, ovverosia del livello più profondo dell’essere. Dalle rivoluzioni dello spirito dipendono poi tutte le altre rivoluzioni dei livelli più superficiali: il politico, l’economico, il sociale. I due livelli non sono scindibili. L’uomo deve trovare la forma dell’essere e trasmetterla alla società perché la sua pratica esistenziale sia realmente umana e non subumana o umanoide. L’arte è la scienza dell’anima, lo strumento di ricerca dell’essere.
L. B.: Arte & vita: assunto affascinante e ingannevole (con un lignaggio eccezionale: Baudelaire, Wilde, Marinetti, Hugo Ball, Van Doesburg, El Lissitzky, ecc.) che trova la sua declinazione più complessa con i surrealisti. Da quel momento, dichiararsi a favore del dissolvimento dei confini tra arte e vita diventerà d’obbligo per ogni artista con ambizioni di modernità. E così, passando per il Living Theatre, si arriva all’arte relazionale. Ma cosa significa “abbattere ogni diaframma tra l’arte e la vita”? Già all’inizio degli Anni Settanta, Harold Rosenberg – non esattamente un conservatore – scrisse che se si prende sul serio questa formula si deve necessariamente concludere che una manifestazione di piazza è superiore a qualunque happening. Per quanto mi riguarda, mi interessa invece proprio lo scarto dell’opera rispetto alla vita, scarto che rende l’opera necessaria. Invece che inseguire inutilmente la vita sul suo stesso campo, la continua mutevolezza, mi accontento (come artista, non come cittadino) di osservarla, decifrarla da un osservatorio; la prospettiva è parziale, certo, ma è già qualcosa. “Factum infectum fieri non potest”, scriveva nel 1977 Franco Fortini, “cosa fatta capo ha e l’unica alternativa all’opera è il non fare”.
Vorrei che provaste a selezionare, passando in rassegna il vostro lavoro e quello di colleghi che stimate, alcune immagini rappresentative del modello espositivo che più si adatta al vostro ideale artistico. A Luca chiedo di indicare mostre e opere allestite in gallerie o spazi museali, a Gian Maria installazioni ambientali o interventi site specific.
L. B.: Non ho un ideale artistico. E poi portare esempi di un modello espositivo tendenzialmente neutro è noioso. Per ora ho visto solo le immagini del nuovo allestimento della GNAM di Cristiana Collu e Saretto Cincinelli e mi pare molto bello (Gian Maria ci ha scritto su un articolo che mi è piaciuto molto). Ricordo l’allestimento, che mi colpì profondamente, della mostra di Christopher Williams, alla vecchia GAM di Bologna, nel 2007, prima del trasloco al MAMbo. Opere, intervento nello spazio, dimensione simbolica dell’operazione – tutto mi parve in un equilibrio perfetto. Una scelta il cui merito va anche all’intelligenza dell’allora direttore Gianfranco Maraniello.
G. M. T.: Citerei cinque lavori particolari. Il primo è la basilica di Santa Sabina a Roma, una delle più antiche basiliche della storia della cristianità. È un ambiente in cui è impossibile determinare una differenza sensibile tra la dimensione architettonica e quella spirituale, nel senso che spazio e tensione che esso induce costituiscono un movimento unico. Similmente funzionano due luoghi a me molto cari, in cui ho passato giorni, forse anni, forse più di quanti non ne abbia: la Chambre à coucher di van Gogh e la Chambre à coucher de Max Ernst cela vaut la peine d’y passer une nuit. Esattamente qual è il confine tra realtà e rappresentazione, tra realtà e percezione di questi spazi, ma soprattutto, dov’è il confine tra chi dipinge e chi osserva? Tutto si annulla anche qui, in un movimento unico. Lo stesso vale per quello che è semplicemente uno specchio in cui è impossibile definire chi osserva e chi è osservato. Sto parlando di una qualsiasi delle opere di Mondrian. Devo citarne anche una mia? Beh, allora direi l’ultima, Sette Stagioni dello Spirito, perché non c’è un diaframma tra quell’opera e la sua comunità di riferimento. Mi si potrebbe far notare che riferirsi a una sola comunità è limitante. Ma la realtà è che la comunità di un’opera è costituita da tutti coloro che vi entrano in contatto nelle sue declinazioni e nel tempo. La cappella degli Scrovegni è un’opera pensata per una comunità determinata in termini geografici e storici. Tuttavia tale comunità si allarga ogni qual volta qualcuno varca la soglia di quello spazio.
Per concludere, è il pubblico che deve cercare l’arte oppure è l’arte che deve offrirsi al pubblico?
L. B.: Ahi ahi… Chi è il pubblico? Io, te, Gian Maria siamo il primo pubblico di quello che facciamo. Primo comandamento: cerca di non mentire (troppo) a te stesso. Mi piace l’idea che l’arte si offra – come una prostituta, con occhi dolci e profondi e una storia dolorosa alle spalle. A chi si offre? A chi passa di là. Si paga in euro e senso di colpa, ma le tariffe sono ragionevoli.
G. M. T.: Il pubblico ha bisogno dell’arte. Ma è il nostro lavoro a portargliela.
– Vincenzo Merola
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