Dai graffiti alla pittura. Intervista a Remi Rough
Protagonista della monografica allestita negli ambienti capitolini di Wunderkammern, l’artista londinese racconta l’evoluzione della sua poetica. Dall’adesione al movimento Urban britannico ai lavori pittorici attuali. Senza dimenticare la musica.
Come l’autore di un trattato sulla composizione, Remi Rough (Londra, 1971) si serve di linee, forme e colori rispettandone i valori e gli equilibri. Apprezzandone le qualità e le possibilità. Performandone le due dimensioni con una tensione verso la terza e verso l’infinito.
Sinfonia di un Minimalismo Sistematico. Così Rough, reduce del movimento Urban britannico Anni Ottanta, definisce la sua ultima produzione dando il titolo alla mostra presso Wunderkammern. In essa accenna a due temi fondamentali per la sua ricerca: la componente sonoro-musicale (è lui stesso compositore e musicista da oltre vent’anni) e il repertorio minimalista a cui si ispira.
Qual è stato il passaggio naturale che alla fine degli Anni Ottanta ti ha portato a spostare il lavoro dal contesto urbano a quello della galleria?
Si è trattato di una lenta presa di coscienza di non sentirmi più parte del movimento in cui mi trovavo. Si può scrivere il proprio nome tante volte prima di perdere interesse in esso. Volevo esplorare la pittura spaziale. Avevo bisogno di trovare una tensione e un equilibrio che i graffiti per me non possedevano. E l’ho ritrovato nell’ambiente dello studio. Ho voluto che la mia arte fosse più pura possibile e che potesse maturare in differenti stati.
Nella tua produzione recente, le lettere, i personaggi e gli elementi narrativi sono del tutto scomparsi. È la fine dei grands récits (grandi narrazioni) della modernità, a dirla con J. F. Lyotard?
Sicuramente per me lo è. Le meta-narrazioni hanno esaurito il loro scopo. Per citare l’espressionista astratto Barnett Newman: “I vecchi standard di bellezza erano irrilevanti: il Sublime era tutto ciò di cui si aveva necessità – un’esperienza di grandezza che avrebbe potuto traghettare l’umanità moderna fuori dal suo torpore”. I graffiti sono nati da bisogni, come la privazione dei diritti civili, e da obiettivi, ma sono diventati una parodia del loro stato originale. Gli elementi narrativi che richiamano la scrittura sono diventati un punto di riferimento storico, ma non sono più in grado di auto sostenersi nel Postmodernismo. Sono quindi semplicemente referenziale all’interno di un contesto modificato più ampio.
Che cosa significano per te la linea e il movimento obliqui spesso presenti nei tuoi lavori, almeno a partire dal 2013 (dalla serie Equilibrium)? Derivano dall’evoluzione grafica dei graffiti?
È difficile individuare i punti precisi di cambiamento nella mia pittura. La serie Equilibrium ha rappresentato un allontanamento definitivo dall’ingenuità di una pittura immatura. Le forme delle lettere erano e, in qualche misura ancora sono, la forma più pura di astrazione moderna. L’unica forma d’arte mai creata e praticata dal bambino che, attingendovi, le astrae e le rende irriconoscibili a tutti se non a se stesso. Le linee oblique che uso nelle mie pitture sono i punti di interpunzione e il ponte che lega la matematica e la pittura stessa. Le semplici forme decostruite sono, per me, il flusso continuo del mio passato, come una memoria muscolare involontaria. La palette che uso è immersa nel contesto storico della graffiti-art degli Anni Ottanta. È lì, ma è allo stesso tempo decostruita e portata ai suoi ingredienti di base.
Che ruolo deleghi alla musica nella tua mostra e nella tua pratica in generale?
La musica è come un traduttore nei confronti della pittura. Il modo più semplice di descrivere le emozioni di ciascun lavoro è attraverso il suono. Il mio ruolo come pittore è di comunicatore. L’astrazione e l’arte matematica possono comunicare attraverso semplici forme e linee. La mia è una pratica sostanzialmente sistemica. La musica è costruita su griglie. L’intera mostra, sia la musica che le opere pittoriche, sono essenzialmente linee che vivono su una medesima griglia.
Parliamo oggi di “post-graffiti art”. Qual è la differenza più sostanziale che riconosci tra la prima generazione graffiti e quella attuale? Qual è secondo te il futuro prossimo della Street Art?
Il linguaggio è la differenza più importante. Quello usato da artisti e graffiti-writer non è mai stato concepito per essere capito da chiunque, se non dai professionisti del movimento stesso. Non reputo Street Art una descrizione valida. Il movimento Street, per me era, ed è tuttora, John Fekner, Richard Hambleton e Keith Haring. Quel linguaggio aveva un livello di coinvolgimento del pubblico completamente diverso. La politica della fine degli Anni Settanta a New York era per la primitiva Street Art un incentivo a prosperare. Broken Promises di John Fekner è stato un lavoro fondamentale: esso alludeva al governo di quel tempo, dimentico delle persone più vulnerabili della città. Una citazione che persiste oggi, ma in un contesto totalmente differente. Le “Broken Promises” sono oggi artisti che pretendono di parlare una lingua che non comprendono veramente. Il movimento attuale è un esercizio di strategie da Instagram. Il futuro è uno spazio condiviso con il moderno mondo contemporaneo, lontano da questioni di “movimenti”.
– Marta Silvi
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