Alla De Sarthe Gallery di Pechino, in occasione della mostra Infinite Lines, abbiamo incontrato Lu Xinjian (Yixinge, 1977) ci siamo fatti raccontare la sua storia: un’inedita testimonianza sulla scelta di essere un’artista nella Cina di vent’anni fa.
Quando hai deciso di intraprendere gli studi artistici?
Venendo da una famiglia molto povera di contadini, non è stato per nulla semplice seguire questa mia propensione verso l’arte, ma fin da bambino ho sempre pensato che le linee potessero raccontare una storia. Mi piaceva disegnare, ma non avevo mai pensato di diventare un artista, non avevo soldi per comprare dei colori. Non avevo neppure idea che esistesse una scuola per studiare arte finché, a undici anni, non incontrai un’insegnante, o meglio, una volontaria. Lei aveva studiato a Nanchino e veniva in campagna solo per insegnare a noi bambini. Vide i miei disegni e, colpita, mi chiese se avessi mai pensato di voler diventare un artista. Ho iniziato a sognare, a pensare di intraprendere quella strada, a impegnarmi per far diventare il mio sogno realtà.
Qual era il contesto artistico che offriva la Cina a quel tempo?
In tutta la Cina, prima degli Anni Duemila, ci saranno state dieci gallerie. Nel 1997, a Nanchino, la capitale della provincia in cui abitavo, non c’era nemmeno una galleria. Voler perseguire una qualsiasi carriera artistica era davvero una scommessa. Basti pensare che al corso di Pittura all’Istituto d’Arte di Nanchino erano ammessi al massimo cinque o sei studenti all’anno. Io avevo bisogno di uno stipendio, dovevo trovare un lavoro per mantenermi e accontentare anche la mia famiglia, come potevo pensare di fare soldi con la sola pittura? Tutti gli studenti che uscivano da quella scuola andavano, nel migliore dei casi, a insegnare negli istituti superiori. Non c’era ancora spazio per gli artisti.
Il panorama artistico era davvero povero: non ho mai incontrato un vero artista, neppure durante i miei studi, e nei musei erano esposte solo opere della tradizione classica cinese. Per questo motivo mi sono iscritto al corso di Graphic Design.
Provenendo da un piccolissimo villaggio, come hanno reagito i tuoi genitori alla decisione di studiare arte?
Partiamo dal presupposto che i miei genitori non sapevano nulla del mondo, a loro bastava che io studiassi. Mi avrebbero voluto ingegnere, ma solamente perché pensavano che mi avrebbe portato a ricoprire cariche importanti, non tanto perché sapevano cosa significasse essere un ingegnere.
Mi ricordo, in particolare, un episodio accaduto con mia madre. Quando le dissi che sarei andato a studiare in Olanda lei non aveva assolutamente capito di cosa stessi parlando. In cinese Olanda (Helan) è molto simile alla parola Henan, una regione della Cina. Lei aveva capito che mi sarei trasferito in Henan e mi chiese, con disappunto, perché volessi studiare così lontano e non nella mia regione che, a suo avviso, offriva comunque molte scuole. Quando le spiegai che sarei andato in Europa l’unica cosa che mi disse fu di tornare a casa se mi fossi trovato senza nulla da mangiare.
Cosa ti attraeva dell’arte e del design olandese da portarti così lontano?
Nel 1999 lo Studio Dumbar, una compagnia olandese di design, fece una mostra al Museo di Nanchino. Per me fu uno choc scoprire per la prima volta quanta differenza ci fosse tra il loro lavoro e lo stile dei miei insegnanti. Quello che mi colpì fin da subito fu la libertà di espressione. Pensavo che i loro lavori fossero delle composizioni davvero attraenti sia dal punto di vista dei colori che nell’uso della linea, delle opere quasi sexy! Qualcosa di totalmente nuovo e lontano da quello che insegnavano i miei professori.
A essere sincero, a quella mostra non ci sono neppure mai andato perché non potevo permettermi il biglietto d’ingresso. Mi bastarono le locandine che vedevo appese in giro per la città per rimanere colpito e far crescere dentro di me il fortissimo desiderio di andare a studiare in Olanda.
Ovviamente non avevo le risorse finanziarie per trasferirmi all’estero. Lavorai quattro anni come grafico con il solo scopo di mettere da parte i soldi necessari per studiare in Europa.
Poi cosa successe?
Mi ero posto un solo obiettivo, ero a un bivio della mia vita e non mi ero dato seconde possibilità: volevo entrare alla Design Academy di Eindhoven. Mentre lavoravo, studiavo inglese e nel 2004 feci la prova di ammissione. Se non fossi stato accettato, avrei continuato la mia vita come mi avrebbe imposto la società: mi sarei sposato e sarei andato a vivere vicino ai miei genitori. Invece, fortunatamente, mi hanno preso e da quel momento la mia vita è cambiata! Entrai alla Design Academy di Eindhoven nel 2004 e l’anno successivo mi trasferii al Frank Mohr Institute.
Tutto era nuovo per me! Mi ricordo che un mio professore mi chiese come mai scattassi così tante foto nei musei; io gli risposi che non avevo mai avuto la possibilità di vedere così tante cose interessanti in Cina, per me era tutto nuovo e assolutamente straordinario.
L’esperienza in Olanda ha segnato profondamente la tua vita e il tuo percorso artistico. Raccontaci come sei arrivato a definire il tuo particolare linguaggio figurativo che possiamo apprezzare nella serie City DNA.
È stato un processo molto doloroso iniziato dieci anni fa quando in Olanda mi sono innamorato di una ragazza. Ci amavamo follemente e avevamo deciso di tornare in Cina assieme e di sposarci. Il padre, però, quando scoprì che provenivo da una famiglia contadina della campagna ed ero un artista squattrinato senza futuro, si oppose in maniera durissima alla nostra relazione. Dopo aver manifestato tutta la sua disapprovazione, scappò di casa per giorni senza dare sue notizie. A quel punto capii che la situazione stava degenerando e mollai la presa per il bene della mia ragazza e la serenità della sua famiglia. In quel frangente, però, lei si innamorò di un altro, uno che piaceva ai suoi genitori. Fu così che iniziai il mio progetto The bleeding Rose. Ogni tre giorni, dal 17 settembre, le inviai una rosa rossa e un disegno che rappresentava un momento della nostra relazione, fino al 19 dicembre, giorno in cui le inviai simbolicamente una rosa bianca. Attraverso questo processo di catarsi ho cominciato a disegnare, a esprimermi, a trovare un mio particolare linguaggio espressivo.
Quali evoluzioni conobbe il tuo stile?
Subito dopo quel periodo, il College of Design and Art of Yeungman University, in Corea, mi chiese di tenere un corso. Fu un buon motivo per lasciare la Cina e iniziare un nuovo capitolo della mia vita. In effetti, mi servì molto. Avevo una routine tranquilla, solamente sette ore di lezione a settimana, cosa avrei potuto fare nel resto del tempo libero? Prima trasferii diciotto disegni della serie The bleeding rose su tele di grandi dimensioni, poi, stanco di questa narrazione grafica, decisi di sperimentare nuovi linguaggi, di intraprendere una mia ricerca personale, partendo dalle esperienze artistiche di grandi maestri, Mondriaan, per esempio. Fu così che approfondii lo studio di De Stijl.
Parliamo di Mondriaan e di De Stijl, che hanno avuto un grande impatto su di te. Quale è stata la prima occasione in cui ti sei imbattuto in questa corrente artistica?
Mentre stavo studiando a Eindhoven son venuto per la prima volta a conoscenza del Modernismo. Ne ho sentito parlare a lezione e ne rimasi colpito perché fin da piccolo pensavo che le linee avessero delle potenzialità infinite, che componendole potessero dare origine a narrazioni grafiche.
Alla fine del 2008, nel mezzo delle mie ricerche e guidato dal mio professore Petri Leijdekkers del Frank Mohr Institue, mi sono inoltrato in uno studio più approfondito dell’arte contemporanea. Lessi un libro su De Stijl. Sembrava che quel libro fosse stato scritto per me, erano concetti ai quali stavo pensando da tempo. Ho iniziato a guardare a Mondriaan con occhi diversi, ho iniziato a esprimermi con delle linee. È stato provvidenziale, mi trovavo in un momento davvero confuso a livello di ricerca artistica. Improvvisamente trovai una direzione: l’armonia tra linee e spazi!
Come è nato il progetto City DNA?
Ero un ragazzo di campagna con un grande sogno: trasferirmi da un minuscolo paesino di appena 200 persone a una città, una metropoli vera e propria. Ero affascinato dalle città.
Nel 2009 sviluppai otto grandi rappresentazioni di centri urbani che avevo visitato. Ero stregato dalle luci, dalla velocità, volevo catturare tutto ciò sulla tela, ma non avevo ancora trovato la giusta modalità per renderlo visibile. Un giorno vidi, in una rivista, una serie di foto che hanno guidato la mia ricerca nella giusta direzione. Quelle foto facevano trasparire il movimento, il traffico, la luce e l’architettura, tutto quello che io stavo cercando di rappresentare. Quelle foto mi hanno portato a trovare lo stile per rappresentare l’energia delle città moderne sulla tela. Così è nato City DNA.
La svolta, però, è avvenuta nel settembre del 2014 quando ho avuto il piacere di incontrare a Shanghai Francisco J. Sanchez, un ex membro del Consiglio dei Ministri di Obama. Questi, colpito dal concept dei miei lavori, mi ha commissionato alcune opere riguardanti la Casa Bianca e il Campidoglio. Prima di passare all’esecuzione, mi fece vedere alcune immagini del Campidoglio che si rifletteva sull’acqua; quella vista fu per me un motivo d’ispirazione che portò la mia ricerca stilistica a un livello successivo: i riflessi.
A fronte del tuo percorso, come pensi sia cambiata la figura dell’artista in Cina negli ultimi 20-25 anni?
L’arte è sempre stata molto importante per la cultura cinese, è una parte integrante della nostra storia. L’arte contemporanea, però, è così differente da quella tradizionale che è stato davvero difficile per il pubblico, la critica e la società comprendere un diverso tipo di linguaggio figurativo lontano da una secolare tradizione.
Come ho già detto, prima del 2000, c’erano a malapena cinque o dieci gallerie in tutto il Paese. Ora le cose sono cambiate: l’arte contemporanea è considerata come un’imprescindibile possibilità di espressione portatrice di valori e significati. L’artista, di conseguenza, ha assunto un ruolo da protagonista e non di esecutore. Parte di questa importante inversione di rotta è avvenuta grazie alle giovani generazioni di artisti che vanno a studiare all’estero. Finalmente in Cina si è compresa l’importanza di avere una modalità di espressione artistica diversa da quella tradizionale.
E oggi?
Le cose stanno evolvendo in fretta. Nel 2010 la capitale dell’arte contemporanea cinese era Pechino seguita da Shanghai, considerata una seconda importante piattaforma. Oggi la situazione si è invertita, molti artisti e molte gallerie si sono trasferiti a Shanghai, incoraggiati anche dal governo locale della città che, avendone colto l’importanza, sta investendo molto a riguardo. Si è creata una bella atmosfera, creativa, frizzante e, allo stesso tempo, zone che erano dedicate all’arte tradizionale stanno pian piano chiudendo, lasciando spazio a nuove gallerie e a una nuova scena artistica di cui mi auguro essere un attivo protagonista.
– Giorgia Cestaro
Pechino // fino al 30 aprile 2017
Lu Xinjian – Infinite Lines
DE SARTHE GALLERY
328-D Caochangdi Chaoyang District
www.desarthe.com
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