Hugo Cabret. La magia del cinema, e di Scorsese
Come mettere insieme le due origini del cinema, quelle rappresentate e simboleggiate dai Lumière e da Méliès? Se qualcuno poteva provarci, e riuscirci, quel regista è Martin Scorsese. E il suo “Hugo Cabret” - nelle sale da ieri - diventa così un capolavoro.
Martin Scorsese santo subito.
Laddove il cinema diventa religione dell’Essere che precede, penetra e supera l’Apparire.
Perché il Giotto italo-americano della settima arte ha compiuto il suo cerchio perfetto, cine-testamento di una vita simbiotica a quell’immagine-movimento che, anche grazie alla sua opera coerentemente eterogenea, durerà per l’eternità.
Ebbene, il suo Hugo Cabret, 11 nomination agli Oscar e visibile da ieri su oltre 400 schermi italiani (di cui parecchi in 3D), è un capolavoro. Ed è un film incantevole, letteralmente parlando. Il vero total-cinema, che dalle altezze delle origini scende nella profondità della tridimensione dell’era 2.0 eppure dal sapore antico, perché densa di verità.
In Hugo Cabret, tratto dal prodigioso romanzo del giovane yankee Brian Selznick, si racconta dell’orfano Hugo, carbonaro residente nella parigina Gare de Montparnasse, che attiva quotidianamente gli orologi della stessa mentre tenta di aggiustare l’automa “scrivente” trovato dal padre (vittima di un incendio) nello scantinato di un museo. Una creatura che solo a guardarla unisce Metropolis a Star Wars, mentre il contesto della Parigi a inizi Anni Trenta non dissimula le ferite del primo conflitto mondiale mescolate alla voglia di ripartire da capo. Perché “tutto si aggiusta”, basta guardarsi dentro e trovare la chiave giusta. E la chiave per quella macchina ha la forma di un cuore, segreto del mutante alla ricerca della propria identità: diventare ciò che si è, perché “ogni pezzo è unico ed è fondamentale al funzionamento della macchina”. Ovvero della macchina-mondo.
Dalla carrellata al minimo dettaglio, ecco la prima ed emblematica inquadratura di uno straordinario viaggio al centro dell’uomo, dove il non casuale Jules Verne, autore preferito del piccolo Hugo, fa l’occhiolino a chi per primo umanizzò persino la luna, Georges Méliès. Un uomo sintesi di mille artifici, l’essenza della magia, l’invenzione del cinema come sogno. Ed è proprio la dimensione onirica a farsi paradossalmente largo nel meraviglioso film del “neo-neorealista” Scorsese, summa riconciliante tra quelle false antitesi del proto-cinema, il realismo dei Lumière e il fantasy di Méliès. Quest’ultimo entra in scena sotto le mentite spoglie di un giocattolaio, un “assemblatore e aggiusta-cose” ridotto al minimalismo depressivo di una bottega dentro la stazione. Nessuno, ad eccezione della moglie, sanno chi sia (stato) veramente. A Hugo e Isabelle, la figliastra di “papa Georges”, la casuale rivelazione di un mondo che sembrava destinato all’oblio e invece riprende a trasmettersi da padre in figlio.
In Hugo Cabret ogni elemento ha la sua funzione magica, simbolica e metaforica, eppure condotta nell’ensemble di una sinfonia audio-visiva di assoluta grazia, raffinatezza e tenuità, seppur di sconvolgente passione. La riappacificazione tra l’immanente (le macchine, i corpi, la pellicola…) e il trascendente (il tempo, il sogno, il digitale…) che solo un dispositivo come il cinema sembra realizzare, appare qui come l’ossessione di Scorsese, novello orologiaio, testimone dei miracoli di Méliès e che da spettatore appassionato si trasforma in erede-mattatore, divenendo lui stesso l’automa attivato dalla chiave a forma di cuore persa nella memoria del tempo. Perché certo che il grande Georges avrebbe lavorato in 3D, oggi. Nel meta-sogno di Hugo si nasconde l’essenza del cinema: un treno che deraglia distruggendo la stazione (ovvio omaggio al primo film dei Lumière, ma anche il cinema che paurosamente si fa realtà) e se stesso “mutante” in macchina (il regista che diventa il suo film).
Ecco il cinema che rende felici perché rende migliori, che restituisce l’incanto del sogno, e che quando si vede si vorrebbe rivedere all’infinito, in quanto è un’opera d’arte. Ecco la genialità di Martin Scorsese, il ragazzo venuto da Little Italy che non ha mai smesso di sognare. A lui, non casualmente, il critico statunitense Richard Shickel ha dedicato una popolare frase di Henry James: “Noi lavoriamo nelle tenebre, facciamo quel che possiamo, diamo quello che abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione e la nostra passione è il nostro compito. Il resto è follia dell’arte.”
Anna Maria Pasetti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati