La Terra Inquieta secondo Massimiliano Gioni. L’intervista
Sta inaugurando proprio in questi minuti la mostra “La Terra Inquieta”, prodotta dalla Fondazione Trussardi e allestita alla Triennale di Milano. Migrazioni e rifugiati sono al centro di una grande rassegna curata, come al solito, da Massimiliano Gioni. Ne abbiamo parlato con lui.
L’avventura della Fondazione Nicola Trussardi nell’arte contemporanea è cominciata negli spazi del suo quartier generale accanto al Teatro alla Scala. Poi con la tua direzione siete andati a caccia di luoghi insoliti, alcuni spettacolari – ricordo ancora il primo progetto con la roulotte e la Fiat bianca di Elmgreen & Dragset nel cuore della Galleria Vittorio Emanuele a Milano –, altri poco conosciuti dai milanesi, come la Caserma XXIV Maggio o l’Istituto dei ciechi. Trussardi, anche per la moda, ha usato location straordinarie per le sue sfilate, come quella memorabile alla Stazione Centrale di Milano. Con la Fondazione ora avete deciso di “istituzionalizzarvi”, prima con la mostra La Grande Madre a Palazzo Reale e ora con La Terra Inquieta alla Triennale. Prima avevate una certa unicità, rispetto ad altre realtà, ora la Fondazione organizza mostre in spazi pubblici e istituzionali. Cosa vi ha spinto a questa scelta?
Ancora prima di essere un museo nomade, la Fondazione Nicola Trussardi ha sempre creduto in un’idea di identità in movimento e in continua trasformazione: abbiamo sempre pensato che un’istituzione davvero contemporanea non potesse starsene semplicemente aggrappata a un unico modello ed essere sempre identica a se stessa. Così come l’identità delle persone nel XXI secolo è assai mobile e molteplice, allo stesso modo volevamo che la Fondazione avesse la libertà e capacità di trasformarsi che la rendessero davvero contemporanea.
Quindi, se da una parte l’idea della Fondazione che scopre e svela i segreti della città installando mostre in cornici bellissime e rare è ancora parte del nostro DNA e della nostra identità – l’anno scorso abbiamo presentato Sarah Lucas agli ex bagni di Porta Venezia ad esempio –, più di recente abbiamo anche sentito l’esigenza di organizzare grandi mostre a tema di arte contemporanea, di cui peraltro a Milano si è persa completamente la tradizione.
Come è nata questa esigenza?
È stata una scelta che prima di tutto ha coinciso con l’anno dell’Expo e con il desiderio di fare qualcosa di speciale e diverso e su una scala ancora più ambiziosa delle nostre mostre monografiche, se possibile. Queste grandi mostre a tema – come La Grande Madre e, su una scala certo diversa, La Terra Inquieta – non possono essere realizzate in spazi temporanei semplicemente perché includono prestiti museali molto importanti che devono essere esposti in spazi museali. E se è vero che magari diminuisce l’effetto sorpresa rispetto alla scelta dei luoghi, d’altra parte possiamo raggruppare opere assai rare o comunque costruire una narrazione e una drammaturgia più complessa con opere che non potremmo mostrare altrove.
Si tratta anche di un modo per fare cultura e storia e anche cronaca con l’arte contemporanea e attraverso grandi mostre che sono dedicate a temi di bruciante attualità. La scelta di scoprire nuovi luoghi a ogni esposizione e queste grandi mostre pedagogiche – se vogliamo chiamarle così – hanno in comune una concezione dell’arte e della nostra istituzione come responsabilità civile e civica, cioè la convinzione che l’arte possa davvero cambiare non solo la nostra esperienza della città ma anche offrire nuove chiavi interpretative per capire la realtà.
Tornando alla mostra La Grande Madre. Il tema era molto interessante. Analizzava l’iconografia e la rappresentazione della maternità nell’arte del Novecento con molti materiali inediti. C’era bisogno di una ricerca così estesa com’è stata la tua. La Terra Inquieta invece segue un po’ una moda ormai diffusa a macchia d’olio di artisti che lavorano col sociale. Cosa ti senti di aggiungere, grazie a questa mostra, nel travagliato panorama che stiamo vivendo a livello mondiale?
Innanzitutto credo che si debbano mettere le cose un poco in prospettiva. Dire che la mostra La Terra Inquieta segue una moda ormai diffusa di artisti che lavorano sul sociale mi sembra francamente una generalizzazione un po’ brutale e superficiale, peraltro prima ancora di aver visto la mostra. Non ricordo molte mostre recenti a Milano in cui si vedano artisti dalla Siria, dall’Arabia Saudita, dal Libano, dagli Emirati Arabi, dal Marocco, dall’Algeria, dalla Turchia, e da tanti altri Paesi di cui spesso si sente soltanto parlare per questioni di cronaca o – peggio – spesso in termini non esattamente lusinghieri.
Quindi prima di tutto la mostra supplisce a una mancanza che rischia di far apparire Milano assai più provinciale di quanto non sia: dopotutto siamo una città quanto mai multiculturale e da sempre forse la più internazionale in Italia. In secondo luogo gli argomenti che molti degli artisti in mostra toccano – e la profondità ed empatia con cui li toccano – è tutt’altro che una questione di moda: è una questione di vita e di morte. L’aspetto forse più importante, e anche provocatorio se vuoi, di una mostra come questa è di ricordare a spettatori e spero a tanti artisti che si può e deve fare arte anche per parlare e affrontare questioni di estrema urgenza e non solo per decorare salotti o spazi museali con oggetti costosi e inutili, come invece va davvero tanto di moda.
E poi la definizione di artisti che lavorano sul sociale è assai generica. In mostra ci sono artisti che adottano gli strumenti dell’azione politica – come Tania Bruguera, ad esempio, o Banu Cennetoglu – e che lavorano per dare migliori condizioni di vita o – assai piu’ tristemente – di morte ai migranti, ma ci sono anche le fotografie di Augustus Sherman e di Lewis Hine che documentavano l’immigrazione italiana negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, quindi si tratta di materiali assai diversi.
“La Terra Inquieta”, leggo, “prende a prestito il titolo da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, autore che ha dedicato la sua intera opera all’analisi e alla celebrazione della coesistenza di culture diverse”. La poesia è un genere straordinario e purtroppo poco seguito e capito, ma non è stata la realtà, che in questo momento supera qualsiasi fantasia o immaginazione, il tuo punto di partenza?
Come sempre ci sono diverse ragioni per cui si crea una mostra. Da una parte c’è la realtà brutale, alla quale assistiamo ogni estate e ogni giorno, dei naufragi e delle tragedie dell’immigrazione. Realtà alla quale molti artisti – alcuni dei quali essi stessi migranti e rifugiati – hanno dedicato opere importanti che mi sembrava opportuno raccogliere in una mostra per cercare di capire in che modo l’arte potesse aiutarci a capire questi fenomeni e a instaurare una relazione forse più empatica con questi soggetti. In secondo luogo c’è la relazione che lega questa crisi della globalizzazione a una trasformazione profonda nell’uso delle immagini nei media e nella comunicazione di massa: in fondo le guerre e le tragedie sono sempre eventi nei quali si ridefiniscono i livelli di tolleranza alle immagini più dolorose e in cui si ridefiniscono i diritti all’immagine – chi ha il diritto di rappresentare chi e come, in questi momenti di crisi.
Ma a questi eventi e a queste trasformazioni sono corrisposte anche trasformazioni radicali nel campo dell’arte. Ad esempio, negli ultimi quindici anni almeno, abbiamo assistito a un proliferare di nuove forme d’arte in cui gli strumenti e i linguaggi del reportage e del giornalismo sono accoppiati a una nuova forma di documentario sentimentale o di reportage lirico in cui la nozione stessa di crisi diventa uno strumento narrativo ed estetico. In altre parole, molti artisti – pensa a Steve McQueen, a John Akomfrah, a Isaac Julien o a Yto Barrada e Bouchra Kahlili, per esempio – creano immagini e narrazioni in cui la storia e l’autobiografia si mescolano, in cui si mette in crisi l’idea di una narrazione ufficiale e oggettiva e si inseguono invece rappresentazioni più oblique e complesse. Queste sono le “immagini migranti” di cui parla lo storico dell’arte T.J. Demos: immagini mobili e molteplici, immagini in movimento e commuoventi.
E forse da qui torniamo alla poesia: forse questi racconti e queste realtà così brutali sono così consunte e logorate dalla rappresentazione dei media, che è importante inventare nuovi linguaggi nei quali poesia e reportage possano coesistere nello sforzo di creare nuove narrazioni e nuove rappresentazioni. La questione in sostanza è proprio questa: qual è il ruolo dell’artista al cospetto della storia?
Ho visto di recente una mostra particolarmente interessante dal titolo The edge of a wound. Immigration, exile and coloniality in the strait of Gibraltar curata da Juan Guardiola al CentroCentro di Madrid. Si trattava di un’inchiesta approfondita su migrazione, identità, cittadinanza, confini, specifica sulla questione dello stretto di Gibilterra. La Terra Inquieta raggruppa una sessantina di artisti provenienti da molti Paesi come Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria e Turchia. Le questioni sollevate dalla mostra hanno, diciamo, un valore universale o nel preparare la mostra hai riscontrato piccole grandi differenze?
C’è uno slogan che Thomas Hirschhorn ha utilizzato più volte nelle sue opere e che ritorna anche in mostra: 1 Man = 1 Man, ovvero un uomo è uguale a ogni uomo, un uomo è un uomo. Una tautologia al contempo disarmante e fondamentale nella sua schiettezza e precisione. Io sono sempre un poco sospettoso di qualsiasi pretesa di universalità e universalismo: anzi, se c’è qualcosa che le migrazioni e gli scambi tra culture possono insegnarci è proprio l’estrema diversità e il relativismo di ogni concetto.
Detto ciò, con Hirschhorn possiamo concordare che se ogni uomo è uguale a un altro, e se prendiamo questa definizione per vera – che poi è la definizione sulla quale si reggono molte delle democrazie occidentali – allora l’universalità si deve inverare nel dettaglio e quindi nella diversità. Se ogni persona è uguale a un’altra, allora ogni persona avrà le sue storie, i suoi racconti, le sue esperienze, diverse e specifiche. L’arte forse è proprio la capacità di raccontare un’esperienza in tali livelli di specificità da apparire se non universale almeno condivisibile.
Inclusioni ed esclusioni. Sono migliaia nel mondo gli artisti che lavorano su questi temi. Onde evitare critiche futili su questo, qual è stata la tua linea guida nello scegliere gli artisti e le opere?
Le mostre non sono mai un concorso a premi: non ci sono inclusi o esclusi. Una mostra – in particolare una mostra come questa – è un organismo con molte parti e nel quale si svolgono vari racconti, vari esempi, vari studi che si intrecciano l’uno con l’altro. Come accennavo prima, la mostra è prima di tutto una riflessione sul ruolo dell’artista al cospetto di eventi storici che riguardano la crisi della globalizzazione e in particolare il fenomeno delle migrazioni e della crisi dei rifugiati. E in maniera più precisa, è una mostra sulla rappresentazione di questi eventi, nell’arte e nei media. Certo, forse avrei potuto scegliere altri artisti o altre opere e immagino che alcuni spettatori o critici avranno altre idee o suggerimenti in proposito, ma è nell’esperienza stessa della mostra che credo che le scelte delle opere, degli artisti e degli oggetti si chiarisca costruendo una narrazione al contempo precisa e aperta però anche all’interpretazioni degli spettatori.
La mostra include anche materiali storici che documentano le trasformazioni storiche, ripercorrendo lo scenario che da locale si è fatto globale. Che spazio ha l’Italia nella mostra?
La mostra è anche una riflessione sul significato di testimonianza, e per questo include anche materiali storici e oggetti di cultura visiva che esulano dall’arte contemporanea. Ad esempio, l’Italia è presente con una lettera del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini all’Unione Europea e con gli oggetti preservati dai naufragi dal Comitato 3 Ottobre. È presente nelle foto di inizio Novecento di Lewis Hine e Augustus Sherman e di altri fotografi di inizio secolo che hanno documentato la grande migrazione italiana in America (dalla fine dell’Ottocento a prima della Seconda guerra mondiale, 26 milioni di italiani sono migrati e la rappresentazione di quei migranti non era molto diversa da quella che oggi attribuiamo a chi arriva sulle nostre coste). In mostra ci sono anche le copertine della Domenica del Corriere che rappresentavano i naufragi delle navi cariche di migranti italiani, i cui viaggi disperati di allora a confronto con quelli di oggi sembravano viaggi di crociera…
Per me era fondamentale che questa non fosse soltanto una mostra di arte contemporanea ma che raccogliesse una varietà di materiali che riescano a catturare la realtà da una molteplicità di punti di vista. In mostra c’è anche una mappa – grandissima – di Boetti, una delle sue ultime, realizzata da donne afgane in esilio in Pakistan e poi le indagini e reportage del collettivo Multiplicity, che è stato uno dei primissimi gruppi di artisti a intraprendere un lavoro di ricerca sulle navi di migranti naufragate nel mediterraneo. E il Meditteraneo e l’immagine dell’Italia compaiono in tantissime altre opere.
Una delle sorprese credo sarà la presenza di Giuseppe Pinot Gallizio, situazionista della prima ora che, affascinato dalla cultura nomade e rom, avrebbe influenzato il progetto della Nuova Babilonia, il sogno di una società futura, senza confini, immaginata dall’amico e collega Constant. Che gli artisti non riescano più a immaginare un futuro senza confini ma che al contrario ne debbano documentare gli effetti sulla vita delle persone, temo sia uno dei segni più dolorosi del nostro tempo.
Quanto spazio invece viene dato all’interno della mostra l’aspetto legato ai media e soprattutto ai social che hanno ristretto i tempi di informazione di certe realtà sofferenti?
Una delle immagini centrali della mostra è un’opera di Phil Collins (l’artista irlandese, non il cantante) che ritrae un gruppo di fotografi e cineoperatori che mettono in posa un ragazzo e una famiglia di rifugiati nel video how to make a refugee: questa opera semplicissima ma importantissima ci ricorda, con un semplice spostamento della telecamera, che molte delle immagini che vediamo nei media sono costruite per rispettare una tradizione iconografica precisa. Questa forse è anche il ruolo dell’artista oggi: non solo quello di cercare di ricostruire una verità, ma anche di svelare la parzialità e la finzione di narrazioni ufficiali.
Socrate diceva: “Sono un cittadino, non di Atene o della Grecia, ma del mondo”. Non abbiamo seguito il suo saggio insegnamento.
Daniele Perra
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