Affaire Padiglione Italia. L’editoriale di Renato Barilli
Il critico bolognese si interroga sulla collocazione del Padiglione nostrano alla Biennale di Venezia. Prospettando ipotesi e soluzioni per regalargli una nuova centralità.
Ritorno sulla tormentata questione di dove collocare, alla Biennale di Venezia, la nostra partecipazione nazionale. Se ne era tanto parlato, al termine dell’edizione scorsa, ma poi non ne è seguito alcun mutamento e si è ricaduti nei medesimi errori. Questi, come tutti sanno, consistono in due o tre cose: nel fatto che per la nostra pattuglia si va a prendere la stanza più lontana, nel lunghissimo percorso dell’Arsenale, dove quindi i visitatori giungono stremati. Non sono di rimedio le poche e incerte navette. Inoltre, chissà perché, quella meta lontana è invasa dalle tenebre, mentre si adocchia, come possibile liberazione, un radioso giardino subito all’uscita. Infine, si è sempre esitato nel numero dei partecipanti, tra selezioni massicce, come fu nell’infelice puntata diretta da Sgarbi, o invece sparute terne, come succede questa volta, e magari le proposte di giovani in sé sono valide, ma permane sempre il limite di non mettere in pole position qualche autore capace di venire insignito del Leone d’oro. Una volta non era così, la nostra selezione era posta nel padiglione centrale. Lo ricordo perché quella fu proprio l’esperienza da me vissuta in prima persona, nella Biennale del ’72, in cui Francesco Arcangeli mi chiamò a condividere la mostra Opera o comportamento, con ben dodici sale, di cui sei ai pittori e altre sei agli esponenti delle ricerche post-68. Mi piace ricordare quell’esperienza dato che il 6 maggio il Pecci di Prato, sotto la guida di Fabio Cavallucci, la ripropone in remake.
“Chissà perché, quella meta lontana è invasa dalle tenebre, mentre si adocchia, come possibile liberazione, un radioso giardino subito all’uscita”.
Non si vede perché non si possa ritornare a quella soluzione ottimale. Dato anche che, per certi padiglioni minori, destinati a trovare ospitalità in quel luogo, ora si può provvedere sistemandoli entro l’enorme percorso dell’Arsenale. E ci sarebbe anche il vantaggio di togliere spazio alle scelte spesso sconclusionate del direttore di turno, in quanto pure lui, o lei, ha ampia possibilità di rivalsa alle Corderie. Siccome due sono state le mie partecipazioni alla Biennale, ricordo in proposito anche quella all’Aperto del 1990, che sarebbe semmai una diversa valida possibilità da tener d’occhio, quando cioè al direttore in carica si concedeva in toto il padiglione centrale ai Giardini, mentre alle Corderie, pur sempre sotto il suo controllo, intervenivano i membri di un comitato capace di allargare il raggio della selezione, puntando su presenze giovani. E l’Italia riusciva a conquistarsi la sua parte: allora riuscii a piazzare ben sei artisti nostrani, che si trovarono allineati con grandi nomi come Jeff Koons e Wim Delvoye. Poi ci fu l’infelice idea di chiudere l’Aperto allargando senza limiti lo spazio concesso al direttore, libero di invadere quelle corsie con opzioni indifferenziate, tra vecchi e giovani, senza alcuna regia e linea interpretativa.
– Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37
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