L’ultimo Vincenzo Agnetti. A Catania
Fondazione Brodbeck, Catania – fino al 14 maggio 2017. Il terzo appuntamento di “Unfinished Culture”, progetto ideato da Giovanni Iovane per la sede catanese, è “Photo–Graffie. Dopo le grandi manovre 1979-1981”, retrospettiva dedicata a Vincenzo Agnetti.
Il linguaggio, la poesia, le sperimentazioni concettuali, il tempo, la contestazione politico–sociale segnano per Vincenzo Agnetti (Milano, 1926-1981) un’originale esperienza artistica che si sviluppa in poco meno di quindici anni. Un processo critico–epistemologico, rigoroso e metodico, ne costituisce la strategia. Sul curriculum ha un’esperienza professionale nell’automazione elettronica in Argentina ma, dal 1967, a Milano condivide progetti e ideali con Manzoni e Castellani, collaborando alla rivista Azimuth.
La mostra scopre un Agnetti maturo e lirico, dove la poesia non è medium né linguaggio ma diviene sostanza dell’arte, si fa maniera. Riunisce una delle ultime serie cui l’artista ha lavorato esplorando l’uso della fotografia come processo concettuale. Attraverso un procedimento alterato, che bascula tra esterno e interno, le Photo–Graffie sono pellicole fotografiche esposte alla luce, trattate e graffiate al fine di “restaurare” il disegno e la pittoricità dell’immagine. Una punta metallica incide le nere superfici originate da un cortocircuito di luce, tracciando linee di colore, paesaggi e figure impalpabili come l’immaginazione.
UN LUNGO FIL ROUGE
A continuare il filo del discorso espositivo di Dopo le grandi manovre 1979 – 1981 sono venti opere su carta realizzate mescolando insieme fotografia, scrittura, china, pastello e collage. Il progetto nasce, a Gibilterra, dalla serendipità dell’acquisto di un vecchio album presso un rigattiere. Agnetti ritrova una collezione di tavole giapponesi in bianco e nero e di piccolo formato che un anonimo pittore aveva successivamente acquerellato. Le ri-fotografa, vi interviene artisticamente e le ricompone aggiungendo citazioni, disegni e, perfino, uno degli esiti digitati della sua Macchina drogata del 1968, frutto della sostituzione, in una vecchia calcolatrice Olivetti, dei numeri con le lettere dell’alfabeto. L’artista s’inserisce in un freestyle diacronico e poetico dove la Storia e le storie si sviluppano non più con sequenzialità cronologica ma attraverso un processo di cicliche stratificazioni di “rammemorazioni” e amnesie, di passato e presente, di pensiero e sogno.
– Giusi Affronti
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