Giovanna Lacedra – Lasciarsi cadere
Una performance di Giovanna Lacedra con la partecipazione di Barbara Raccuglia.
Comunicato stampa
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
(Eugenio Montale 1937)
Nello sforzo di dimenticare, la memoria cementifica.
Invece di lasciare andare, trattiene.
La fatica di azzerare non è mai “azzeramento” portato a compimento.
Perché ciò che vogliamo recidere per illusione salvifica, ha in realtà scaturigine nel nostro cuore.
È in noi che si radica profondamente.
E allora obbligarsi a dimenticare non è altro che una straziante mutilazione. È bendarsi, tapparsi le orecchie, stringere i pugni e serrare le labbra. È imporsi di non sentire.
Un atto violento verso noi stessi, prima di tutto. Qualcosa di antitetico alla più autentica liberazione.
Non si è liberi se non restando. E attraversando ciò che ci fa più paura.
Il vuoto, l’assenza, l’abbandono.
La memoria.
Non c’è fuga che possa salvarci dalla consistenza e dal peso di ciò che ci domanda di essere vissuto.
E affrontato. E poi lasciato andare, petalo dopo petalo, pagina dopo pagina.
Non si può realmente tornare ad essere liberi se non cedendo.
E guardando, annusando, ascoltando, toccando, sviscerando.
Lasciandosi cadere.
Fino a quando il veleno diverrà dolce.
E poi da dolce, diverrà minimo.
E poi da minimo, diverrà distante.
E da distante, diventerà quasi-niente.
È il quasi-niente che va accettato. Perché ogni solco è traccia del proprio vissuto. E quella traccia non deve svanire. Non va cancellata.
Scappare dal vuoto non porta in nessun dove, se non ancor più testardamente nel luogo dal quale vogliamo evadere.
Tutto ci appartiene e dunque in noi soltanto esiste la cura. Soltanto restare ci può liberare.
Il vero atto di coraggio è “starsi dentro”. Scivolarsi nel profondo. Cadere tra le proprie invisibili braccia.
Sentire il vuoto, sotto. Sentire la paura.
Eppure andare. Andare verso. In uno scoscendimento gravitazionale.
E sentire. Ogni cosa, totalmente. Il tumulto, il disagio, lo shock e lo stupore.
Perché qualunque sia la piaga, sarà sempre e soltanto nostra.
La solitudine ci terrorizza. Perché ci obbliga all’ascolto.
E il fragore di quel silenzio è poco confortevole.
Ma recidere è un atto frettoloso.
È un’amputazione. E tutto ciò che offre è la percezione di un arto fantasma.
I rami secchi non si tagliano. Sanno quando è tempo di cadere. E cadranno da soli.
Estirpare. Strappare. Tagliare. Nulla di tutto questo serve a lasciare andare.
Il solo modo per lasciare andare è lasciarsi cadere. Trattando il proprio dolore come fosse acqua.
Una notte liquida. Una danza fluviale su cui galleggiano pagine e petali.
E respiri spezzati.
Ed il peso schiacciante di qualcosa che non si può spostare. Ma soltanto attraversare.
Inutile agire con violenza.
La sola cosa che si può fare è fluire.
La sola cosa che si può fare è lasciarsi cadere.
In realtà c’è una sola paura: quella di lasciarsi cadere,
di fare quel passo verso l’ignoto lontano da ogni certezza possibile…
(Herman Hesse)