Architetti d’Italia. Michele De Lucchi, il poliedrico
Nono appuntamento con i ritratti degli architetti italiani stilati da Luigi Prestinenza Puglisi. Stavolta tocca a Michele De Lucchi, considerato da molti “solo” un ottimo designer, ma emblema di un approccio che mescola con intelligenza dimensioni opposte. Coniugando avanguardia e regola.
Se provate ad affrontare l’argomento Michele De Lucchi, saranno numerosi gli architetti che faranno fatica a considerarlo un loro collega: “un eccellente designer” vi diranno, con quella tagliente tecnica del disprezzo che consiste nel riconoscere un merito ma solo per ingigantire un’assenza. Dimenticando, che dopo Renzo Piano e forse più di Renzo Piano, non c’è un personaggio che possa rappresentare l’architettura italiana meglio di lui. E non solo per fatturato. De Lucchi è, infatti, l’incarnazione dello stile italiano. Di quell’High Touch che sforna opere tagliate come un bel vestito, sempre calibrate, sempre attente al contesto, sempre appropriate, sempre ecologicamente consapevoli.
Ma, se ne è l’incarnazione, è soprattutto perché con la gran parte degli architetti italiani condivide alcune magistrali ambiguità.
A partire dall’atteggiamento duttile, un tempo si sarebbe detto opportunista, nei confronti dell’avanguardia. Da un lato l’imperativo è non rinunciarne alla patente. Un po’ perché da giovane un po’ avanguardisti si è stati. De Lucchi ha vissuto la stagione del design radicale, è stato assistente di Adolfo Natalini, ha operato a stretto contatto con Sottsass ed è stato uno dei fondatori del gruppo Memphis. Un po’ perché suonerebbe male non essere contro: contro il sistema, contro lo status quo, contro il vecchiume… Allo stesso tempo, come rilevava Edoardo Persico, gli architetti italiani sono incapaci di credere in qualche cosa di preciso. Anzi, forse, questa è la loro forza perché permette loro di mettere insieme le cose più disparate, anche tra loro apparentemente inconciliabili. Inoltre, una posizione coerente di avanguardista duro e puro sarebbe professionalmente scomoda. E avrebbe impedito il contatto con le grandi Corporation come Poste o Banca Intesa, che certo non cercano progettisti con idee troppo radicali.
AMBIGUITÀ INTELLIGENTI
De Lucchi è straordinariamente abile a gestire con intelligenza la sua anima poliedrica, ambigua e polivalente. Gioca la sua immagine professionale su un doppio registro: da un lato da santone new age, dall’altro da imprenditore smaliziato che ha capito dove sta andando il mercato di questa società postindustriale e feticista. Da innovatore che non vuole tradire il suo imprinting radicale e da conservatore che ritornerebbe alla baita nella Foresta Nera a giocare con la motosega con la quale produce deliziosi modelli di case in massello.
A rendere perfetta l’indecisione o, piuttosto, la decisione di abbracciare gli opposti è una sua definizione di avanguardia lenta se non bradipesca che ricorda il paradosso di Achille e la tartaruga formulato da Zenone.
“Avanguardia è portare avanti per piccoli passi il senso di essere moderni, perché ogni volta che la modernità si raggiunge questa è già andata avanti”.
DESIGN E HIGH TECH
De Lucchi designer? Certamente e sarebbe sciocco negare che il suo successo professionale sia stato trainato da alcuni oggetti e, in primis, dalla lampada Tolomeo, prodotta in diverse versioni e in milioni di esemplari da Artemide. Il fatto però che sia dovuto ricorrere al design per affermarsi ci racconta più delle difficoltà che incontrano gli architetti in Italia che di una vocazione unidirezionale di De Lucchi. Infatti, le strade privilegiate per il successo in Italia sono due. La prima la hanno praticata Renzo Piano e Massimiliano Fuksas ed è la via dell’esilio, che prepara il gran rientro, la seconda è l’affermazione nel mondo degli arredi e poi dell’edilizia: com’è successo ad Antonio Citterio o a Mario Bellini. E difatti, provate a dire a quest’ultimo che sia solo un grande designer e vi lancerà una delle sue Bambole sulla testa.
Due lampade da tavolo hanno avuto, nella storia del design, un successo planetario. La Tizio di Richard Sapper e la Tolomeo di Michele De Lucchi. Osservatele con attenzione e capirete la grande sintesi del primo.
La Tizio è un oggetto concettualmente perfetto: nell’equilibrio di pesi e contrappesi su cui è organizzato il disegno e che ha richiesto la rinuncia al tradizionale filo elettrico. Rinuncia avvenuta grazie all’accorgimento di utilizzare la bassa tensione e far correre la corrente sulle due aste parallele che compongono ciascun braccio. Sebbene Sapper si sia italianizzato, solo un tedesco poteva concepire un così perfettamente disciplinato capolavoro tecnologico.
La Tolomeo non rinuncia al filo, che però si intravede con calcolato effetto solo tra gli snodi, e ogni tanto la devi regolare stringendo oltre misura la rotella tra i due bracci per non farla precipitare sul tavolo. È, inoltre, più spiazzante della Tizio, dove tutte le parti sono tra loro coerenti, perché termina con un funzionale ma non modernissimo cappello che stride rispetto alla logica strutturale del fusto, fatta di esili tiranti, e vagamente high tech.
In alcune versioni il cappello diventa vintage e rassomiglia a quello delle lampade della nonna, pur mantenendo sempre una calcolata ambiguità che non lo fa precipitare nel kitsch.
Direi che proprio questa complessa semplicità è una delle ragioni principali del successo della lampada di De Lucchi. La rende il manifesto di un atteggiamento insieme domestico, disincantato ed elegante, di ricerca di nuove sintesi e della certezza del loro carattere parziale e precario. Solo in apparenza perché, mettendo in scena il felice convivere di tensioni opposte, De Lucchi riesce a ottenere un’opera non solo di grande successo ma anche duratura. La lampada è in produzione oramai da trent’anni e mentre la Tizio mostra segni di stanchezza, la Tolomeo procede nella sua corsa di vendite.
ARTIGIANATO E HIGH TOUCH
Paragonavamo prima Michele De Lucchi a Renzo Piano. Se il metro di giudizio fosse il tanto decantato architetto artigiano, dovremmo affermare che il vero Piano è proprio De Lucchi. Non solo perché una fabbrica che produce con tecniche artigianali l’ha realizzata, fondando nel 1990 Produzione Privata, un marchio dedicato alla produzione di pezzi che, come ama definire, sono “senza committenza”. Ma perché vi è nel lavoro dell’architetto una visione dell’artigiano come sperimentatore che può rappresentare una soluzione ai problemi della sofferta modernità italiana. Il nostro Paese, infatti, non ce la fa a competere con i Paesi a forte produzione industriale, non sarà mai la Cina o la Germania. Nello stesso tempo ha un patrimonio di tradizione artigiana che lo rende leader in ogni settore dove si richieda tocco e manualità: High Touch, appunto. Come lo stesso de Lucchi ama ripetere, l’industria non può sbagliare, l’artigiano sì. Diventando così il custode di una flessibilità e di un’esperienza che si costruisce con il suo stesso farsi, capace di salvaguardare le dimensioni del tempo e dello spazio in una società che invece il tempo e lo spazio li divora. In grado di confrontarsi con la mano e con i materiali che richiedono velocità accettabili di utilizzo e invecchiano bene. È la strada che stanno percorrendo i nostri imprenditori illuminati: vengono in mente i cachemire di Brunello Cucinelli o le borse di Benedetta Bruzziches. E che in architettura ha ancora bisogno di un proprio guru.
Michele De Lucchi lo potrebbe essere. Ha talento e faccia tosta. D’altra parte, chiedetegli chi sia il suo eroe, e lui vi risponderà Gandhi. Quel cocciuto tradizionalista di Gandhi che, per uno strano paradosso della storia, riuscì, e a dispetto della tecnologia britannica, in un’opera di modernizzazione di un Paese che nessuno avrebbe mai immaginato essere possibile. Non avrà il carisma e la tempra di Gandhi, ma, siatene sicuri, fra trent’anni, fra i santi fondatori dell’imprenditoria ecologica italiana, troverete sicuramente Michele De Lucchi con la sua barba che fa molto brand e un po’ martire cristiano.
– Luigi Prestinenza Puglisi
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