Biennale di Venezia. L’editoriale di Laura Cherubini

Componente ludica e interazione sono due aspetti che animano la Biennale curata da Christine Macel. Ma secondo Laura Cherubini questo non basta per passare alla Storia.

Il titolo della grande mostra realizzata dalla direttrice di questa Biennale, Christine Macel, suona un po’ strano in italiano e riecheggia l’annuncio della segreteria telefonica di Luigi Ontani che da anni ci saluta con un sonoro: “Viva l’Arte!”. Macel parte dall’assunto che di fronte ai conflitti del mondo l’arte è “il luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà”. È quello che ci piace pensare, è quanto speriamo sia ancora e sempre vero. “… un giardino da coltivare…”, scrive Macel, ma è possibile ancora l’esistenza di un hortus conclusus o il luminoso giardino sempreverde è permeabile dai tanti i veleni che vi si insinuano? Il saggio proposito è quello di mettere al centro l’arte e gli artisti ed è lodevole, anzi addirittura encomiabile, che la direttrice abbia pensato a una Biennale “con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano, i modi di vivere che scelgono”. E infatti le opere respirano, hanno lo spazio di un buon allestimento. E ci sono anche diversi bravi artisti e diverse belle opere. Ciononostante la maggior parte dei commenti che ho ascoltato all’uscita delle giornate di preview recitavano: “Non mi ha entusiasmato…”, “È piatta…”. Ma certo si trattava degli ipercritici addetti ai lavori, palati sopraffini e mai soddisfatti… Il grande pubblico sarà più indulgente con una mostra che in molti casi riporta al mondo dell’infanzia, al tempo del gioco, alle pratiche artigianali anche attraverso l’interattività. La fluida scansione in nove Trans-Padiglioni sembra più pensata a posteriori per conferire una leggibilità al grande magma di opere che non nata da intrinseca necessità.

57. Biennale di Venezia, Arsenale, Michel Blazy, ph. Andrea Ferro

57. Biennale di Venezia, Arsenale, Michel Blazy, ph. Andrea Ferro

BUONE RISCOPERTE

Quello che c’è sicuramente da dire è che alcuni fatti tra i più interessanti sono da rintracciare nelle “riscoperte”, spesso provenienti da quella categorie di artisti che negli USA vengono definiti underestimated e che riservano sempre belle sorprese. John Latham che si era concentrato sul libro al punto di mangiare il saggio di Greenberg; il “papa del cattivo gusto” John Waters; Raymond Hains e la critica consapevolezza che la Biennale rende gli artisti “strumenti della propaganda culturale del loro Paese”; il poeta e performer Tibor Hajas; il rigoroso Riccardo Guarneri e il lirico Giorgio Griffa; le pietre galleggianti alla Gaggiandre di Kishio Suga; Maria Lai che, partendo dalla fiaba sarda di una bimba che salva la propria comunità, coinvolge gli abitanti di Ulassai nel progetto di Legarsi alla montagna; Charles Atlas che ha tradotto la danza in video; il grande, corale inno alla pace di Anna Halprin (maestra di Meredith Monk, Simone Forti, Yvonne Rainer e Trisha Brown).  Emblematiche appaiono le figure di Franz West e della sua arte da abitare e indossare e del grande concettuale olandese Bas Jan Ader, scomparso nell’Oceano Atlantico nel ’75.

RARE SCOPERTE

Più rare le scoperte, ma tra le generazioni più recenti si distinguono: Abdullah Al Saadi; le bellissime stratigrafie della storia dell’arte disegnate da Ciprian Muresan; Edi Rama; Salvatore Arancio; Michel Blazy; la memoria documentaristica di Marie Voignier. Buona prova dell’italiano Michele Ciacciofera con la sua casa per fate immaginarie (lo ritroveremo a Documenta). Bel lavoro di Anri Sala sul rapporto tra suono e architettura, ironico quello di Orozco sulla crisi della società industriale. Cerith Wyn Evans, in una delle sue opere più belle, porta a Ostia, dove Pier Paolo Pasolini fu assassinato, una frase tratta dal film Edipo Re che parla di un paesaggio italiano, quello dove lo scrittore era cresciuto. Sull’identità le opere di Kiki Smith e di Petrit Halilaj. Quest’ultima è una delicata opera che potrebbe essere abitata dal corpo dell’artista che l’ha realizzata con l’aiuto di sua madre con stoffe della tradizione del Kosovo che ci narrano la metamorfosi in falena: una delle migliori opere della mostra, non a caso premiata con la menzione d’onore.

57. Esposizione Internazionale d'Arte, Venezia 2017, Ernesto Neto, photo credit altrospaziophotography.com

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Ernesto Neto, photo credit altrospaziophotography.com

DAL TESSUTO AL GIOCO

Tante le opere sul tema del tessuto, del ricamo, del cucito: Senga Nengudi con le calze; Lee Mingwei con i rocchetti di filo; il ricamo praticato in gruppo predisposto da David Medalla su un grande tessuto appeso; le sculture di stoffa completate dal corpo dello spettatore di Franz Erhard Walther. Questo filone culmina con l’intensa performance di Ernesto Neto all’interno di una tenda sospesa. Molti lavori hanno un aspetto ludico, come quello di Martin Cordiano, questo contribuisce a dare al tutto un’apparenza di grande parco giochi, quasi un luna park.
Il clima è molto diverso, opposto quasi, a quello cupo del drammatico e bellissimo Padiglione Italia curato da Cecilia Alemani che sembra raccontare un’altra, differente storia dei nostri tempi. Viva Arte Viva è una mostra che incontrerà sicuramente il favore del grande pubblico e ce lo auguriamo di tutto cuore. Passare alla Storia e incidere sulla cultura di questo nostro tormentato tempo sarà invece tutt’altro paio di maniche (anche se cucite da tanti fili colorati).

Laura Cherubini

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