Biennale di Venezia. Parola alla musica
Una nuova lettura della Biennale curata da Christine Macel. Stavolta il fil rouge è l’elemento musicale, declinato dalle molte sfumature del gesto creativo.
Una profusione di parole e di giudizi circonda ormai la Biennale di Venezia e le mostre che le gravitano attorno. Padiglioni più o meno interessanti, mostra lagunare politically correct, ottimi eventi off (Philip Guston alle Gallerie dell’Accademia, The Boat is Leaking. The Captain Lied alla Fondazione Prada, Intuition a Palazzo Fortuny, fra gli altri). Gli occhi assorbono arte 24 ore su 24 nei giorni frenetici della vernice. Una volta concluso il viaggio e raccolte le idee, fili impercettibili si delineano oltre la confusione. Uno di questi è l’elemento sonoro-musicale che anima alcuni dei lavori più originali presenti tra Giardini e Arsenale.
IL PADIGLIONE FRANCESE
Il Padiglione Francia, con l’installazione Studio Venezia concepita da Xavier Veilhan, a cura di Lionel Bovier e Christian Marclay, ne è un tributo inconfondibile. Per sette mesi (e non solo per i pochi giorni dell’opening) si avvicenderanno centinai di musicisti provenienti dai background più disparati. Il luogo espositivo si trasforma in auditorium, vero e proprio contenitore di performance. Il legno, acusticamente perfetto, fodera gli spazi creando un’enorme cassa di risonanza, piacevole alla vista. La musica diventa vettore di discipline e di mezzi espressivi, oltre i confini linguistici demandati alle individualità nazionali. Un esperanto intramontabile che, Kandinsky docet, esalta le potenzialità dell’incontro tra diversi campi di ricerca. Con un pensiero non solo agli antefatti del Bauhaus e del Black Mountain College, ma anche a lavori polisensoriali ineludibili come Station to Station di Doug Aitken, questo padiglione diventa l’alter ego di un enorme studio di incisione e di sperimentazione. Tra tutti i sensi che una Biennale di Arte Contemporanea sia in grado di attivare, qui si predilige quello dell’udito, o meglio dell’ascolto e, perché no, anche dell’olfatto. Lo spettatore è invitato a predisporsi e ad abbandonarsi.
L’AMBIENTE IMMERSIVO DI DAWN KASPER
Tra Giardini e Arsenale, anche Christine Macel sceglie un paio di lavori performativi/ partecipativi che consegnano all’elemento musicale un compito interattivo nodale, di ponte tra artista e pubblico.
Dawn Kasper si appropria di gran parte della sala ottagonale all’ingresso del Padiglione Centrale per trasferirci il suo intero studio. In The Sun, the Moon and the Stars l’artista sistema disegni, fotografie, accessori, trucchi, costumi e, non ultimo, strumenti musicali. Nel suo work in progress scrive, lavora e suona coinvolgendo fluidamente il pubblico. Giradischi, computer portatile e strumenti a percussione sono i dispositivi di performance coinvolgenti al limite tra spettacolo tragicomico e rappresentazione musicale, in cui ironia e humour nero si affacciano con veemenza, retaggio della tradizione californiana (Paul McCarthy, Mike Kelley, Jason Rhoades) da cui l’artista proviene. Il concetto di studio nomade, che Kasper esperimenta nel 2008 facendo di necessità (i costi troppo alti degli spazi in affitto) virtù, evolve nel lavoro del Whitney Museum, 2012, quando l’artista occupa per tre mesi la sala del museo animando giornalmente lo spazio. L’allitterazione del quotidiano si erge a codice universale: il fare arte non è più la ricerca dell’eccezione, quanto della ripetizione e della pratica giornaliera continuativa. Uno streaming di esperienza che accoglie una sequenza fluida di innumerevoli unicum più o meno programmati, in cui la produzione musicale fa da imprescindibile collante.
DAL PADIGLIONE OLANDA AD HASSAN KHAN
Il valore di aggregatore e acceleratore comunicativo affidato alla musica è presente anche nel Padiglione olandese, di per sé meno accattivante degli altri. In uno dei due film in mostra, Cinema Olanda, 2017, questioni di razza, classe e anti-imperialismo si cristallizzano nelle parole di una giovane band, gli Addiction che, grazie alla diversa provenienza geografica e sociale dei suoi componenti, racconta il panorama sfaccettato e multiculturale della Rotterdam contemporanea. La canzone composta appositamente per il film, No names, no blames, no false divisions, rievoca la possibilità di modelli sociali alternativi e demanda alla scena musicale indie-rock la riflessione sulle conseguenze dell’immigrazione post coloniale che sostiene l’intero film.
Anche Composition for a Public Park, 2013-17, del Leone d’argento Hassan Khan, installata al Giardino delle Vergini, si presenta non a caso come una foresta di amplificatori che, voci isolate, suonano insieme costruendo tre movimenti circolari in fluttuazione.
LA POESIA DI NEVIN ALADAĞ
All’Arsenale, invece, l’artista turca (naturalizzata tedesca) Nevin Aladağ propone due lavori di assoluta poesia, in cui la produzione sonora e l’ascolto sono passaggi fondamentali. Nelle Corderie, all’interno del Padiglione Dionisiaco, Traces, 2015, si compone di una proiezione a tre schermi in cui riprese brevi descrivono uno scenario astratto privo di presenza umana dove alcuni strumenti musicali sono attivati esclusivamente da elementi naturali (il vento che culla un palloncino a cui è appeso un flauto leggerissimo) o dal movimento implicito di alcuni arredi urbani della città di Stoccarda (un cavalluccio a gettoni che, messo in funzione, fa tintinnare il tamburello che lo incorona). Nella semplicità risiede un lirismo di grande effetto emotivo. Lo stesso che, secondo differenti presupposti, si ritrova nella performance Raise the Roof, concepita nel 2007 per un tetto di Berlino, roccaforte dei soldati della RDA. Come allora, alcune ragazze si trovano a ballare al suono di un walkman in cuffia, su diverse piattaforme posizionate nello spazio esterno dell’Arsenale. Dettaglio imprescindibile, il pubblico viene escluso dall’ascolto: ai titoli delle canzoni riportate sulle magliette di ciascuna performer è affidata l’immaginazione dello spettatore che interpreta astrattamente i movimenti cadenzati. Mentre ai tacchi, che battono un tempo asincrono lasciando segni evidenti sulle superfici, è affidata l’unica presenza sonora. Qui, a differenza degli altri progetti citati, siamo invitati ad ascoltare attraverso gli occhi, mentre la traccia mnemonica (i titoli innescano connessioni a grappoli) risulta determinante nella costruzione dell’immagine.
Musica come aggregatore e facilitatore. Musica come happening e incubatore di esperienze. L’aspetto partecipativo, la premiazione di Anne Imhof lo dimostra, sembra risorgere dalle ceneri delle ricerche degli Anni Settanta. Senza traumi, ma con una consapevolezza ulteriore: che nell’epoca contemporanea, in cui il mondo social rende solo apparentemente i rapporti semplificati e veloci, l’unica in grado di salvarci, per dirla con Bourriaud, sarà l’estetica delle relazioni.
– Marta Silvi
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