Biennale di Venezia. L’universo sciamanico di Christine Macel
La direttrice della 57. Biennale di Venezia ha articolato la sua mostra in nove trans-padiglioni, sparsi tra l’Arsenale e il Padiglione centrale dei Giardini. Uno di questi, il Padiglione degli Sciamani, merita particolare attenzione.
Sussistono strumenti molto antichi, alcuni del tutto misteriosi e segreti, per capire se siamo chiamati dagli Spiriti a diventare sciamani. Gli Spiriti, difatti, lasciano dei segni nel corpo e nell’anima del futuro iniziato, che di solito possono essere letti solo in “un’Altra Realtà”, ma in arte si individuano o sono rappresentati in scelte curatoriali o in segni “rituali” concepiti da interventi artistici di creativi “eletti”.
Questi ultimi concetti sono riscontrabili anche in alcune scelte artistiche operate da Christine Macel per Viva Arte Viva, che, con i suoi 120 artisti, ha proposto al pubblico un percorso costituito da nove mondi differenti (il Padiglione dei Libri e degli Artisti, il Padiglione delle Gioie e delle Paure, il Padiglione dello Spazio Comune, il Padiglione della Terra, il Padiglione delle Tradizioni, il Padiglione degli Sciamani, il Padiglione Dionisiaco, il Padiglione dei Colori e il Padiglione del Tempo e dell’infinito), i quali si svolgono come in un cammino “processionale-spirituale” tra gli spazi del Padiglione Centrale ai Giardini e quelli dell’Arsenale fino al Giardino delle Vergini.
I nove padiglioni, pensati dalla curatrice, ci conducono alla scoperta dei diversi modi di riflettere, leggere e fare arte contemporanea, lontana dalle scelte delle Biennali dei grandi nomi. La Macel, infatti, ha proposto un progetto che porta l’artista al centro di tutto. Fregandosene delle leggi del mercato e del potere dei galleristi, ha deciso di fare una Biennale che parli degli artisti, delle loro opere e dell’arte. Ciò ha permesso di determinare un legame tra realtà differenti, che non sempre si incrociano, e di conoscere la visione e le metodologie differenti offerte da artisti non per forza osannati all’interno dei circuiti internazionali.
ARTISTI E SCIAMANI
Una scelta curatoriale non da tutti condivisa sia per la presenza di autori “poco conosciuti” e soprattutto per una visione poco chiara e subordinata ai troppi temi proposti. Nonostante ciò, la mostra all’Arsenale presenta interessanti risvolti validi a testimoniare le realtà, i conflitti, le problematicità e le ritualità di civiltà lontane. È il caso del Padiglione degli Sciamani, che emerge per la capacità di testimoniare il concetto magico dell’arte, le fragilità dell’umanità e le sue incertezze, ma anche la forza e la libertà. L’artista, come uno sciamano, ha lo scopo di riportare equilibrio e proporzione tra il mondo impercettibile e quello visibile. Per di più, diviene una figura in bilico tra “guaritore e mediatore culturale” capace di introdurci attraverso il mutamento del suo stato di “coscienza artistica” in una diversa condizione di consapevolezza e riflessione.
Il Padiglione degli Sciamani, infatti, più degli altri sembra al centro del “concetto magico” della scelta di Christine Macel, in cui il punto di contatto è generato da un’ideale tangenza tra uno sciamano e un artista, che a suo modo tenta di rivivere le esperienze del suo predecessore senza imitarle, anzi reinterpretandole con ammirevole originalità, attualità e autonomia.
Fanno parte di questo mondo sette artisti, animati da una visione interiore che connette insieme diverse filosofie, in particolare quella buddista e quella sufi o impegnati a esorcizzare/purificare, creando azioni e rituali terapeutici-spirituali che tuttavia non mostrano nulla di religioso se non un concetto supremo che è quello dell’arte. Anche la scelta di un “gruppo” formato da sette artisti non sembra casuale ma mira alla ricerca del “tutto”. Il numero sette, infatti, per diverse culture e religioni, esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta il ciclo compiuto della creazione e di ogni forma di conoscenza.
NETO, RAHMOUN E RAMÍREZ
Apre la sezione il brasiliano Ernesto Neto (Brasile, 1964), con un’enorme tenda a ragnatela, legata alle colonne e alle travature del soffitto della navata principale dell’Arsenale. Un’opera capace di coinvolgere il pubblico in questo percorso sciamanico e nel determinare una prima connessione con la cultura rituale sciamanica degli amerindi, appartenenti all’etnia Huni Kuin, presenti nella foresta amazzonica al confine con il Perù. L’installazione, dal titolo Um sagrado lugar (Sacred Place), diviene un luogo per vivere in armonia con il mondo e la natura e per la socializzazione e la guarigione dell’anima, anche grazie alle cerimonie spirituali a cui il pubblico ha preso parte accompagnato dagli stessi indios presenti durante l’azione performativa Encounter with the Huni Kuin all’Arsenale.
Anche la performance presentata ai Giardini dal titolo Boa Dance conducted with the Huni Kuin, come la tenda, diviene simbolo contemporaneo per una convivenza tra mondi differenti.
La disciplina del perfezionamento spirituale del sufismo è affrontata dal marocchino Younés Rahmoun (Marocco, 1975) nell’installazione dal titolo Taqiya-Nor (2016), composta da 77 berretti di lana colorata. L’opera ci introduce alla cultura musulmana della sua terra, infatti, secondo il Corano, i numeri legati al 7 rappresentano una forte valenza simbolica e spirituale. Anche l’utilizzo della lana non è casuale, il materiale si lega all’origine della parola “sufismo”, da ṣūf (lana), che alluderebbe al saio indossato dai primi asceti, divenendo così simbolo del legame instaurato tra l’artista-maestro e il pubblico. Quest’ultimo è incitato a riflettere su “ciò che è velato” e, attraverso la luce, a ricercare una nuova via spirituale e di perfezione.
Al centro del padiglione un piccolo box accoglie il visitatore con le immagini surreali del video Un hombre que camina (2011-14), di circa 22 minuti, di Enrique Ramírez (Cile, 1979). Il video è stato girato nel deserto di sale di Uyuni (Bolivia) durante la stagione delle piogge, che, accumulandosi sulle placche di sale, formano un sottile strato specchiante, capace di riflettere la luce del sole e tutte le sfumature cromatiche del cielo. L’opera ha inizio con la figura di un moderno Caronte, con il viso nascosto da una maschera da diablo nortino, mentre trascina con passo pesante gli abiti dei defunti verso il loro ultimo viaggio. Un rituale che attinge da elementi delle tradizioni europee e latinoamericane ma anche da rappresentazioni adottate dalle popolazioni locali della Bolivia nel periodo coloniale per deridere i conquistadores. La marcia del traghettatore di anime è accompagnata dal suono di una fanfara, elemento tipico dei funerali delle alte Ande cilene e boliviane, trasformando il tragitto in una vera processione dal tenore surreale, che placa la solitudine finale dell’uomo dinanzi alla propria scomparsa.
HERÁCLITO E BANERJEE
Nello stesso padiglione, in un secondo box, la videoinstallazione a due canali realizzata da Ayrson Heráclito (Brasile, 1968), rafforza il concetto e l’immagine magico-rituale voluta in questo padiglione dalla curatrice Macel. Il lavoro di Heráclito è il risultato delle riprese di due performance realizzate sulle due coste opposte dell’oceano Atlantico: O Sacudimento da Casa da Torre (2015) e O Sacudimento da Maison des Esclaves em Gorée (2015). In entrambi i luoghi, scelti da Heráclito, tre uomini vestiti di bianco eseguono il rito dello “scuotimento” che consiste nel colpire con mazzi di foglie e ramoscelli i muri e gli angoli di un’abitazione. Questa usanza per molti afrobrasiliani di Reconcavo o Bahia ha lo scopo di allontanare gli spiriti degli antenati defunti, la cui costante vicinanza è all’origine di ogni sorta di guai. L’azione rappresenta anche un rito di purificazione di una contemporaneità complicata e perseguitata dalla negatività.
Rina Banerjee, nata in India nel 1963, dopo diverse esperienze nel campo scientifico e artistico, propone per Viva Arte Viva installazioni scultoree suggestive e fluttuanti, all’apparenza lontane da ogni contatto con la realtà, ma basta avvicinarsi a esse per accorgersi che le forme “sognanti” e colorate sono ottenute attraverso l’accumulo e la fusione di oggetti di uso corrente e di materiali naturali: conchiglie, piume, lampadine, tessuti, fili colorati, uova ecc. Sculture autosufficienti, incantevoli e al tempo stesso minacciose, nate dal sogno di un alchimista, che esibisce l’interesse innato per la scienza e indaga il tema dell’esotismo, le radici coloniali e la consapevolezza della coesistenza di altri mondi.
ATIKU E RAMÍREZ-FIGUEROA
Infine vanno ricordate le performance realizzate in occasione della vernice dagli altri due artisti “sciamani”, Jelili Atiku (Nigeria, 1968) e Naufus Ramírez-Figueroa (Guatemala, 1978). L’azione di Atiku, dal titolo Mama Say Make I Dey Go, She Dey My Back, ha coinvolto 72 donne in costume, provenienti da tutto il mondo, in una seducente e spettacolare processione, dal Giardino delle Vergini alle Corderie, guidata dallo stesso Atiku su un cavallo bianco, in una sorta di rituale evocativo e ricco di riferimenti ai temi legati all’umanità e alla donna. Il percorso processionale ha integrato elementi del sistema di divinazione Yoruba, costumi ebraici e maschere della Guinea.
Naufus Ramìrez-Figueroa ha proposto la performance “terapeutica/spiritica” Thirs Lung, ideata come un sogno curativo sociale, in cui il pubblico è stato invitato a collegarsi al corpo del performer suonando gli stessi strumenti “magici-curativi”. Una funzione fatta di rimandi e di connessioni, in grado di recuperare non solo la memoria della sua terra di origine, che costituiscono un chiaro riferimento al mondo naturale e agli uccelli. I numerosi fori (“nidi”) presenti sugli oggetti, sospesi tra il pubblico e l’artista, sono stati utilizzati come alloggiamenti per i fischietti di ceramica durante l’azione “curativa”.
– Giovanni Viceconte
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