Non staremo qui a discutere di come e quanto sia utile quella disciplina che si chiama audience development. Che è materia tutt’altro che ingenua, ovvero sa benissimo che il primo passo da fare è conoscere i propri pubblici per poi svilupparli e ampliarli. Qui si tratta piuttosto di fare un ulteriore passo indietro, per capire cosa è il “pubblico” e qual è il suo statuto oggi, nelle nostre società a capitalismo avanzato; e cosa è l’“arte” che proponiamo, in specie quando ne siamo – in forme diverse – mediatori. Si tratta insomma di ragionare in termini squisitamente politici, sì da collocare correttamente gli elementi in un quadro che invece, spesso, sembra fatalmente determinato e inamovibile.
Per fare questo, un primo strumento utile è un piccolo libretto di Jacques Rancière, La partizione del sensibile (DeriveApprodi, pagg. 72, € 12), una lunga intervista condotta da Muriel Combes e Bernard Aspe con il filosofo francese. Da esso estrarremo, in maniera effettivamente apodittica, un principio: “Le pratiche artistiche non fanno ‘eccezione’ rispetto alle altre pratiche” – dove il filo conduttore è il lavoro. “Esse rappresentano e riconfigurano le partizioni di queste attività”.
Cosa significa, nella pratica, tale assunto? Che in realtà la retorica riformista del cambiare dall’interno un sistema – quello “specifico” dell’arte o quello generale della produzione – è nient’altro di quel che sembra: una retorica. E se non è riformismo, allora è rivoluzione, consapevoli degli enormi rischi di sussunzione delle pratiche alternative da parte del bulimico capitale; in altre parole: occorre uscire dalle “coordinate classiche dell’attività produttiva”, come scrive Marco Scotini in Artecrazia (DeriveApprodi, pagg. 286, € 20), individuando “nuove modalità e condizioni diverse di pensare la natura della produzione contemporanea, la natura della creazione (o meglio, co-creazione) di beni comuni, forme nuove di distribuzione e di ricomposizione sociale”.
“La retorica riformista del cambiare dall’interno un sistema – quello “specifico” dell’arte o quello generale della produzione – è nient’altro di quel che sembra: una retorica”.
Allora di chi parliamo quando parliamo di pubblico? E di cosa parliamo quando parliamo di sviluppo? Se è vero che le parole sono importanti, stiamo già adottando un lessico produttivo. Ed è in fondo il più grande limite di un libro come Inferni artificiali (Luca Sossella, pagg. 308, € 18) di Claire Bishop, dove la discussione di taluni concetti che stanno alla base del (suo) discorso è proposta a mo’ di epilogo, in una stringata paginetta e mezza, peraltro in polemica proprio con Rancière. Eloquente la chiusa del volume: “L’arte partecipativa non è un medium politico privilegiato, né una soluzione precostituita alla società dello spettacolo, ma è tanto incerta e precaria quanto la democrazia”. Le coordinate a cui si accennava sopra sono intatte, tutte – comprese quella foglia di fico che prende la forma della parola ‘democrazia’.
Certo, la consapevolezza – la “coscienza di classe”, direbbe Marx – non reca immediatamente con sé le soluzioni ai problemi. Ma permette di gettare uno sguardo assai più lucido, addirittura trascendentale, a conseguenze apparentemente minime, di dettaglio, interne al sistema vigente. Ad esempio allo “spazio della mostra”, che sempre più spesso e con sempre maggiore scaltrezza è “rappresentazione dell’ideologia e del racconto”, prendendo a prestito il titolo di uno dei lucidissimi saggi contenuti in Non volendo aggiungere altre cose al mondo (Postmedia Books, pagg. 192, € 19) di Emanuela De Cecco.
“Bisogna attrezzarsi per poter dialogare conflittualmente con la colossale produzione testuale e paratestuale che accompagna zelante la “partecipazione” all’arte di noi pubblico”.
Detto altrimenti: un pesante bagaglio di carburante interpretativo non è sinonimo di noiosità fuorimoda, ma una cassetta per gli attrezzi che permette di smontare e mettere a nudo i dispositivi apparentemente “naturali” attraverso i quali viene presentata – nella fattispecie – l’arte, istituzionale o partecipativa che sia, conservativa o riformista. Dedicare lunghe ore a decifrare il ruolo dell’ecfrasi nella produzione di Roberto Longhi, come fa Michele Dantini in pagine appassionanti del suo Arte e sfera pubblica (Donzelli, pagg. 410, € 37), non è – non deve essere – mera erudizione autoreferenziale, bensì appropriazione di strumenti di libertà.
Vuol dire, per farla semplice, attrezzarsi per poter dialogare conflittualmente con la colossale produzione testuale e paratestuale che accompagna zelante la “partecipazione” all’arte di noi pubblico. Vuol dire sottrarsi – consapevolmente, ancora una volta – a quello che, in Memento (Postmedia Books, pagg. 228, € 19), Pietro Gaglianò definisce “dominio del visibile”, poiché “solo in una dimensione pubblica condivisa e locale ha senso immaginare l’invenzione di nuovi modelli di organizzazione sociale”. E per avere la mente preparata a tale immaginazione serve anche ragionare sul “mausoleo vuoto” di Costanzo Ciano a Livorno.
– Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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