Dimenticare a memoria. Vincenzo Agnetti a Milano
Palazzo Reale, Milano – fino al 24 settembre 2017. A novant’anni dalla nascita, Milano celebra uno dei suoi artisti concettuali più importanti. Raccontando con intelligenza il percorso di Vincenzo Agnetti, scomparso nel 1981.
Quando mi vidi non c’ero, Quando non mi vidi c’ero: sono due titoli di opere di Vincenzo Agnetti (Milano, 1926-1981). Il primo è il suo autoritratto. Bastano due scelte del genere per entrare a piè pari nell’ironica complessità del lavoro di uno dei più significativi artisti concettuali italiani, al quale viene dedicata una bella mostra a Palazzo Reale, curata da Marco Meneguzzo con l’archivio dell’artista.
DIMENTICARE A MEMORIA
Agnetti oggi avrebbe circa 91 anni. Quando scompare, improvvisamente, nel 1981, è ancora giovane e lascia molti percorsi aperti. La sua è la generazione di Dario Fo: come lui studia a Brera per poi andare a studiare al Piccolo Teatro, uno dei contesti più interessanti della Milano del dopoguerra. Dei primi lavori – pitture, poesie – rimane solo traccia scritta. Il verbo nel lavoro di Agnetti è fondamentale. Il gioco di parole, gli apparenti nonsense sono determinanti per accedere al suo complesso universo.
Si potrebbe riassumere il suo percorso artistico ed esistenziale attraverso le sue parole: “Quello che ho fatto, pensato e ascoltato l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico”. Parrebbe un ossimoro, il concetto di dimenticare a memoria, e forse proprio così è. L’aver dimenticato a memoria tutto quanto precede i quindici anni del suo cammino artistico, dal 1967 al 1981, breve ma intenso, in cui l’artista milanese si pone in stretto dialogo diretto e indiretto con l’arte internazionale.
UNA QUESTIONE DI VERBO
Tra i lavori più importanti, La macchina drogata del 1968, un’Olivetti Divisumma modificata, in cui, al posto dei numeri, ci sono delle lettere. “La macchina drogata, alterata nelle sue qualità impiegate, rimane uguale ai prototipi costruiti in serie, stesso aspetto, stesso compito. Un po’ come i discorsi che qualunque sia l’argomento trattato finiscono per eguagliarsi. Quello che cambia in un discorso è la parte meno relativa al discorso stesso, il contenuto”. Il contenuto può deteriorarsi, può allontanare dall’obiettivo, dalla meta.
E ancora i lavori sul linguaggio, sui misteri dell’Apocalisse, le opere di bachelite degli Anni Settanta, i feltri, i libri. Del 1970 è il Libro dimenticato a memoria a cui segue, nel 1971, il Libro quasi dimenticato a memoria, dove la parte leggibile è costituita da uno spazio vuoto.
Il suo è stato un lavoro, una ricerca sul linguaggio. Così per la fotografia, dai progetti panteistici alle fotograffie in cui l’artista lavora direttamente sul supporto. Tra i suoi interventi più attuali, le “autotelefonate”, in cui lui stesso chiama e riceve.
Agnetti era un “artista avanti”, che ha guardato ben oltre il suo spazio vitale, il cui lavoro, come accade nella rassegna milanese, merita di essere approfondito e forse di essere dimenticato a memoria.
– Angela Madesani
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