Investigare la scultura. Parola a Diego Perrone
Diego Perrone approda nello Spazio Murat di Bari con un ciclo di lavori recenti, sculture in vetro e disegni a biro rossa. È l’occasione per dialogare con lui sugli sviluppi della sua ricerca.
Con Sussi e Biribissi / Sculture e disegni, il Polo del contemporaneo di Bari diretto da Massimo Torrigiani propone una selezione di sculture in vetro di Diego Perrone (Asti, 1970; vive a Milano), proseguendo la sua investigazione sulla contemporaneità.
Partiamo da questo progetto: come ti sei rapportato con il lavoro di Sol LeWitt che contrassegna una delle grandi pareti dello Spazio Murat?
Me ne aveva parlato Massimo [Torrigiani, N. d. R.] quando mi ha invitato a fare la mostra qui. Mi aveva chiesto di proporre le opere in vetro che aveva visto in mostra dall’altro Massimo [De Carlo, N. d. R.] e chiaramente ho pensato subito a un progetto site specific per Bari, relazionandomi non solo con lo spazio ma anche con quest’opera così importante.
Il fatto che fosse molto sgargiante nei colori e considerando tutta una serie di vicende legate a quanto è stata maltrattata in passato, ho pensato di usarla come display, riproponendola sul pavimento per riposizionare le sculture. Poi in mostra ci sono i tre disegni nuovi che ho fatto appositamente e che appartengono a un lavoro recente. Ho voluto, com’è accaduto altre volte, usare un’icona, e questo lavoro di LeWitt lo è.
Le stratificazioni iconiche che affiorano dalla materia delle tue sculture vengono spesso riferite al mondo agrario. Nei comunicati stampa delle tue mostre si fa spesso riferimento ai tuoi luoghi di provenienza, come se questi rimandi fossero autobiografici e per certi versi narrativi. Sono semplificazioni da comunicazione? Come si concilia questo rinvio biografico con tutto il tuo lavoro sulla forma e lo studio del linguaggio della scultura?
La prima cosa che ho notato è che il vetro è un materiale anti scultoreo perché la luce lo attraversa, ci va dentro, non facendo vedere le masse e il modellato.
Il vetro ti consente di far vedere ciò che solitamente non si vede mai nella scultura: la sua struttura intrinseca, il suo organismo.
Esatto, poi mescolando vetri opachi, colorati e trasparenti si raggiungono dei risultati interessanti: sono dei bassorilievi attorno ai quali si può girare. Non si può quindi barare. Quando vedi la sagoma, prima vedi i colori mescolati all’interno e poi i soggetti, come il trattore, che diventano quasi pittorici.
Queste sculture sono fuorimisura per essere di vetro, in più pesano sui 130-180 chilogrammi. Ho pensato che potesse essere interessante raccontare un paesaggio. Mi sono quindi chiesto: c’è paura della retorica della scultura? Ok, allora torniamo alla base, raccontiamo l’icona. Ho così lavorato su due tipologie di paesaggio all’aperto, uno acquatico, l’altro pittorico. Il trattore è un’icona legata paesaggio campestre e ho pensato che potesse essere quello il punto di partenza dell’opera. La forma figurativa esiste ma si smaterializza.
Mi pare che sia un pretesto, quindi.
Sì, l’immagine è molto contemporanea da un punto di vista visivo. Oggi c’è l’ansia di non rischiare di scivolare sullo stereotipo, ho quindi pensato a un punto di partenza basico.
Ma gli aspetti biografici sono dritte da comunicato stampa o ci sono sul serio?
Sono metafore alle quali ci si può aggrappare, allo stesso tempo però sono autentici.
E poi c’è la luce abbacinante di Bari, che entra dalle grandi vetrate dello spazio.
Come avevi già visto nella mostra da Massimo De Carlo, lì la luce era studiata, le opere si illuminavano come se fossero delle lampade. Qui a Bari c’è una luce fortissima, perciò abbiamo spento tutte le luci. Alcune mie sculture in vetro le ho viste all’aperto da collezionisti, era interessante perché il vetro cambia colore a seconda della luce atmosferica. Questo di Bari è un luogo giusto per rapportarsi con la luce naturale.
Come sei approdato all’utilizzo del vetro?
Si parte da una scultura in cera. Io, poi, non ho molta esperienza nella scultura in vetro, la competenza tecnica per capire delle cose legate alla forma, mi rivolgo a degli esperti. Ci sono le temperature da considerare, perciò ogni volta va tutto discusso con loro, anche perché ci sono moltissimi rischi. Le prime sculture che ho fatto erano di cera, ed è un lavoro mentale poiché devi considerare che saranno trasparenti: erano profili di visi, ormai qualche anno fa, in occasione della mostra al Museion di Bolzano. I colori interni, per come si mescolavano, erano più forti della superficie scultorea. Ho trovato così delle sagome che mi dessero la scusa per parlare di paesaggio. Il paesaggio astratto però nella contemporaneità è un po’ abusato, pensiamo all’informale.
Nel tuo lavoro ti sei mosso su differenti linee, adottando differenti linguaggi. E hai anche declinato una relazione dialettica con lo spazio. Che problemi ti poni rispetto all’utilizzo di determinati materiali?
Ogni volta li devi ricercare in base a ciò che vuoi ottenere. Per come lavoro io, all’inizio magari faccio qualcosa che non mi piace proprio perché magari ho sbagliato materiale. Ma poi si trova la via giusta, perciò penso di avere un rapporto molto intenso con i materiali. Ora per esempio sto provando a lavorare molto di più con la cera. Poi ogni volta si può aggiungere un tassello, integrando altre cose. Mi piace avere delle porte aperte su cui riflettere e lavorare.
E il disegno? Qui in mostra a Bari ce ne sono tre di grandi dimensioni.
Ho iniziato a farli parecchi anni fa, in comune hanno il colore, la penna rossa. Perché il rosso, come il verde della Bic, è trasparente. Questo mi consente di lavorare, come accade per le sculture, con delle sovrapposizioni. Sono disegni molto grandi, quando insisti molto con queste macchie, diventano poi antropomorfe, e i disegni diventano profondi.
Hai mai lavorato con l’incisione? Ci sono delle similitudini tra il tuo lavoro e il processo mentale della calcografia.
Mai fatto. Ci ho lavorato un po’ in Accademia. Quando ti immagini una scultura in cera che poi devi realizzare in vetro, in qualche modo lavori in negativo come accade con l’incisione. È un processo molto bello.
Oggi ci sono molti scultori, anche giovanissimi, che stanno facendo un lavoro sulla scultura costruita anche grazie a sovrapposizioni di materia. Tu osservi la scena degli esordienti?
Faccio ormai una vita molto monacale. Però giro molto per i vari spazi e ne conosco molti. Mi nutro di questi. Io ho un approccio molto fisico sull’opera, ho bisogno di artisti che siano molto freddi, gelidi, nel lavoro.
Quando ero studente, quelli che avevo come riferimenti, poi sono passati. C’erano artisti che seguivo molto, vedevo le loro mostre, poi certe cose non mi sono più bastate.
La tua giornata tipo?
Casa-studio, studio-casa, però mi sono anche un po’ rotto i coglioni [ride, N. d. R.].
La dimensione del dialogo, nella tua esperienza, come si è sviluppata rispetto ad altre figure del mondo dell’arte?
Sono sempre stato un po’ un cane sciolto, quando studiavo c’era una situazione di grande fermento, con i miei amici vivevamo come in una piattaforma.
Mi piace molto collaborare con altri artisti, con Andrea Sala, con Giuseppe Gabellone. Con lui abbiamo il progetto della rivista Grasso, che è molto impegnativo, ora siamo quasi pronti per il secondo numero.
Rispetto a questa filosofia del confronto, e scusami se ti tratto da vecchio zio, cosa consiglieresti a un artista giovane di oggi?
Devo dire proprio la sincera verità? I trentenni di oggi sono molto più consapevoli di come eravamo noi a trent’anni: sono loro che ci possono dare dei consigli.
‒ Lorenzo Madaro
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