Architetti d’Italia. Franco Purini, il reazionario
Nuovo appuntamento con la serie di Luigi Prestinenza Puglisi dedicata ai protagonisti dell’architettura nostrana. Stavolta, a finire sotto la scure della sua critica, è Franco Purini.
È bene dichiararlo subito: il mio pezzo su Franco Purini risente di antiche ruggini e per le ruggini non ci sono Svitol che funzionino.
Lo screzio risale a una trentina di anni fa: ero da poco laureato e Purini un giovane professore. Presiedeva un incontro dedicato all’architettura italiana in cui furono proiettate immagini di opere postmoderne. Chiesi di intervenire, sostenendo che l’architettura italiana avrebbe, invece, avuto bisogno di imparare da Renzo Piano e Herman Hertzberger.
“Non sono architetti”, mi urlò l’autore della casa del Farmacista di Gibellina, “quelli non sono architetti!”.
Anche da ragazzo non me le lasciavo dire con tanta facilità, ma eravamo in conclusione di serata e non avevo diritto di replica. Fremevo per l’insolenza di quell’attacco, tanto che alcuni professori che assistevano al dibattito vennero a scusarsi per lui: in fondo ognuno può sostenere quello che vuole senza essere aggredito da chi il dibattito lo deve moderare.
A distanza di tempo, ebbi un altro scontro con Purini. Questa volta sul Corviale. Moderava Bruno Zevi. Intervenni sostenendo che si trattava di un fallimento determinato dalle ideologie socializzanti di architetti che però preferivano vivere nelle palazzine dei Parioli. Zevi, che amava Mario Fiorentino e il Corviale e non era un personaggio facile con il quale discutere, ascoltò senza battere ciglio. A incontro concluso, dal pubblico si avvicinò Purini per protestare e contestare. Volarono parole grosse. Gli ricordai le sue posizioni su Piano e Hertzberger e gli dissi cosa pensavo della sua architettura, con franchezza, forse eccessiva.
Negli anni successivi c’è stato qualche riavvicinamento, compreso un dialogo a due voci sull’architettura contemporanea che sembrava una partita a tennis giocata con palle di ferro, un paio di giurie di concorso, una premiazione in Sicilia alla sua lunga e meritoria attività.
Nel frattempo, Franco Purini, da intransigente difensore dell’architettura disegnata e del postmoderno di matrice tradizionalista, è diventato una voce critica accomodante che parla bene di (quasi) ogni architettura e architetto: elogia Renzo Piano oltre misura, il professionismo (prima parola tabù) di Mario Bellini e non ci sono opere di docente universitario, anche mezza calzetta, che sembrano dispiacergli. L’ho sentito pure lodare l’edificio dell’Hilton all’aeroporto di Roma Fiumicino, il cui disegno di facciata ricorda in forma caricaturale le ali di un aereo.
DALL’ESCLUSIONE ALL’INCLUSIONE
Il passare da un atteggiamento esclusivista a uno sempre più inclusivista è un segno dei tempi. Se confrontiamo, per esempio, la Casa del Farmacista o le piazze di Gibellina con l’allora vituperatissimo Centro Pompidou di Franchini, Piano e Rogers, sembra, che siano passate ere geologiche. E molti si meravigliano che, contrariamente a ogni evidenza stilistica, il Pompidou, che sembra più recente, è più vecchio di una decina di anni. A testimoniare quanto la linea di ricerca attenta alle nuove tecnologie sia stata innovativa rispetto a quella che invece costituiva la vulgata accettata nelle accademie dove, invece, girava la voce che l’unica strada architettonica fosse segnata dalla pietra, dal mattone e da un esagerato ruminare la tradizione storica.
Autore prolifico di opere grafiche con qualche dura raffinatezza, tanto da essere considerato uno dei padri dell’Architettura disegnata, Franco Purini ha realizzato nella prima parte della propria carriera poche costruzioni. Tutte caratterizzate da una visione rigida e intellettualistica.
Autoritario è il progetto dello Zen realizzato, a partire dal 1969, con Vittorio Gregotti; cervellotico è il sistema dei rimandi ad architetture all’interno di architetture della Casa del Farmacista di Gibellina (1980-1989) con una casetta con tetto a doppia falda che fuoriesce come una inaspettata escrescenza dalla facciata principale; violento è il modo di progettare il sistema delle piazze di Gibellina (1982-1990) dove, pur di realizzare un invaso unitario, non ci si preoccupa di passare con due muri tra loro paralleli di fronte al tessuto delle case circostanti, senza rispettarne bucature e passi strutturali. A proposito di quest’ultimo progetto, ricordo una conferenza di Laura Thermes, socia e moglie di Purini, nella quale sostenne che i muri e i percorsi sopraelevati avrebbero dovuto essere il canovaccio su cui costruire un’Opera aperta, nel senso che Umberto Eco aveva dato a questa formula. Gli abitanti avrebbero dovuto interagire liberamente e creativamente con essi, trasformandoli in entità brulicanti di vita. Come era facilmente prevedibile, ha prevalso, invece, la rigidità formale del sistema, troppo finito e non certo invitante, e le piazze ancora oggi appaiono prive di vita, deserte e sproporzionate rispetto alle dimensioni di un piccolo centro di 4.028 abitanti quale è Gibellina.
UN PROCESSO GRADUALE
Dicevamo che, con il tempo, Purini ha cercato di superare le rigidezze ideologiche di questa prima fase. Il processo è avvenuto gradualmente e non senza difficoltà. Ricordo ancora una conferenza in cui l’architetto dichiarò, con la stessa sicurezza mostrata anni prima per Piano e Hertzberger, di fronte a una platea di giovani architetti romani che lo contestò con fischi e schiamazzi, che il museo Guggenheim di Bilbao, da poco inaugurato, non fosse architettura.
E, del resto, Purini è sempre in prima fila in tutti i consessi dove si sostengono le idee più revisioniste e reazionarie, compresi gli incontri fiorentini sull’italianità dell’architettura italiana.
Più volte in questa serie Architetti d’Italia abbiamo evocato un fantasma aleggiante nel dibattito architettonico italiano: Marcello Piacentini. Il quale, lo ricordiamo, doveva il suo potere a una politica accorta che sapeva tessere alleanze con le ali più tradizionaliste e intransigenti e, allo stesso tempo, teneva sempre una porta aperta alle moderate sperimentazioni e finanche alle avanguardie che si agitavano nel Paese.
Purini, certo con molto minore successo professionale, ha cercato di avere, da almeno vent’anni a questa parte, un ruolo simile. La perseveranza ha dato i suoi frutti, in termini di prestigio accademico e di qualche buon incarico con opere ideologicamente meno integraliste, anche se sempre ingessate da un plumbeo formalismo.
Per quanto sia un disegnatore dotato, Purini come architetto ha, a mio avviso, la mano nera. Ignora cosa sia la leggerezza ed è difficile ‒ anche chiamando in causa architetti come Vittorio Gregotti e Mario Botta ‒ trovare protagonisti del dibattito architettonico che disegnino edifici più tozzi dei suoi. Compresa la gigantesca torre Eurosky nel quartiere Eur, che ha il primato di essere l’edificio per abitazioni più alto e forse più sgraziato di Roma.
TRE ASPETTI DA SALVAGUARDARE
Nel 2008 nel Centro fieristico di Catania, opera magnifica di Giacomo Leone, fu organizzata, curata da Maurizio Oddo, una mostra monografica del lavoro della coppia Purini-Thermes. Seguì un incontro coordinato da un non troppo convinto Francesco Dal Co. Chiamato a intervenire, cercai di trovare tre aspetti del lavoro di Purini che mi convincevano.
Il primo è stata l’apertura, nei primi anni di attività con lo studio Gregotti, ai temi della dimensione territoriale. Portò a gravi errori, ma l’idea di porsi a una scala che andasse oltre il singolo oggetto edilizio è degna di nota.
Il secondo è stato il tentativo di tenere sempre una porta aperta tra la riflessione teorica e la progettazione. Personalmente non credo che questa linea di ricerca generi buoni risultati, anzi il più delle volte pessimi. Ma, qualcuno che la persegua con un’adeguata apertura culturale deve pur esserci.
Il terzo è l’infaticabile e appassionato lavoro di docente. Un professore generoso e impegnato, anche se portatore d’idee non condivisibili, è per gli studenti più utile di mille bravi progettisti che, invece, non hanno capacità comunicative e relazionali.
Concludevo immaginando che dietro il Purini della coppia Purini-Thermes ce ne fosse un altro più interessante e contraddittorio, costantemente in ricerca e aperto alle avanguardie. Uno che aveva appreso la lezione di Maurizio Sacripanti più di quella dell’ambiguo Ludovico Quaroni, e che, poi, schiacciato dal rigido super io della compagna, avesse optato per una strada diversa. Ma che esista un Purini-Purini diverso da un Purini-Thermes è un’ipotesi forse troppo fantasiosa che volentieri lascerei a un altro scritto, sempre ammesso che ce ne sarà occasione.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano
Architetti d’Italia #2 – Massimiliano Fuksas
Architetti d’Italia #3 – Stefano Boeri
Architetti d’Italia #4 – Marco Casamonti
Architetti d’Italia #5 – Cino Zucchi
Architetti d’Italia#6 – Maria Giuseppina Grasso Cannizzo
Architetti d’Italia#7 – Adolfo Natalini
Architetti d’Italia#8 – Benedetta Tagliabue
Architetti d’Italia#9 – Michele De Lucchi
Architetti d’Italia#10 – Vittorio Gregotti
Architetti d’Italia#11 – Paolo Portoghesi
Architetti d’Italia#12 – Mario Cucinella
Architetti d’Italia #13 ‒ Mario Bellini
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