Quale modello di sviluppo culturale? Il caso Farm Cultural Park
Un grave pregiudizio anti-economico pesa sulle iniziative culturali. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dal mantra della sostenibilità, perché né le iniziative pubbliche né quelle “associazionistiche” hanno modelli sostenibili: le prime gravano sui cittadini sotto forma di tasse, le seconde sui lavoratori, che spesso lavorano gratis.
Negli ultimi anni si è assistito a un grande sviluppo del dibattito che riguarda lo sviluppo culturale in Italia. I risultati di questo neonato interesse sono stati molteplici e soprattutto di varia natura: da un lato, il settore pubblico ha avviato riforme sia della struttura organizzativa della gestione del patrimonio culturale, sia delle modalità attraverso le quali avviare iniziative volte a stimolare la domanda; dall’altro, si sono affermati variegati modelli di sviluppo e di valorizzazione culturale che affondano le proprie radici soprattutto nell’iniziativa privata, come la creazione di progetti di riqualificazione urbana, la creazione di “incubatori di start-up” o la costituzione di centri dedicati alla cultura e all’imprenditoria delle Industrie Culturali e Creative.
STORIE DI INSUCCESSI E DI SUCCESSI
Ognuna di queste attività ha dato a sua volta luogo a casi di successo e a evidenti flop: la riforma pubblica si è concentrata più sugli aspetti formali che sostanziali, le rigenerazioni urbane riguardano spesso esclusivamente attività legate al segmento immobiliare, gli incubatori di impresa non sempre riescono a essere veramente efficienti e la costruzione di centri dedicati alla cultura si è frequentemente risolta nella costituzione di iniziative-fotocopia, che non arricchiscono realmente il tessuto culturale, sociale e imprenditoriale di un territorio.
Ci sono stati altrettanti casi di successo e casi di merito per ognuno di questi atteggiamenti, ma ciò che è evidente è che, allo stato attuale, nel nostro Paese manca una visione di medio periodo, un atteggiamento prospettico che guidi le differenti iniziative verso obiettivi comuni.
IL PREGIUDIZIO ANTI-ECONOMICO
Qual è, dunque, il giusto modello di sviluppo culturale per il nostro Paese, per le nostre Regioni e per le nostre città o piccoli comuni? Che non esistano ricette univoche è un dato di fatto. Ma tra l’applicazione pedissequa di modelli sempre validi e il relativismo disarmante che impedisce la creazione di un filo conduttore, c’è un range di soluzioni quasi infinito.
A guardare l’indirizzo generale che appare dai giornali, sembra ci siano due correnti che si stanno affermando maggiormente rispetto alle altre: da un lato, il settore pubblico, che segue una spinta centralizzante; dall’altro, l’autonomia privata non profit, la quale replica interventi che ambiscono a favorire una visione “sociale” della cultura.
Questo schema ripete quanto già è accaduto con la nascita dell’associazionismo e che ha visto l’affermazione, anche in settori diversi da quello culturale, di un atteggiamento che guarda con sospetto al “profitto” e in generale alle dinamiche economiche.
IL CASO FARM CULTURAL PARK
Non bisogna lasciarsi ingannare dal nuovo mantra della sostenibilità, perché né le iniziative pubbliche né quelle “associazionistiche” hanno davvero modelli “sostenibili”: le prime gravano sui cittadini sotto forma di peso fiscale, le seconde invece gravano sui lavoratori (che spesso non percepiscono stipendi).
Si pensi, ad esempio, al caso che viene indicato come la best-practice nostrana: il Farm Cultural Park di Favara, oggi al centro di un piccolo disguido che prende le mosse da un’ordinanza del Comune di Favara che giudica alcune opere installate nella Farm come “occupazione abusiva di suolo pubblico”.
Ma non è questo il reale problema di Favara: entro ottobre tutto questo sarà risolto. Anzi, questo evento rappresenterà soltanto un’ottima occasione di visibilità per il progetto. Il problema è piuttosto un altro, ed è lo stesso notaio Bartoli ad affermarlo, nel suo recente post che risponde alle accuse mosse dall’amministrazione: il problema è che il modello di Favara non è sostenibile.
Nato da un’iniziativa filantropica, per sopravvivere avrà bisogno di sovvenzioni pubbliche o di prevedere un pagamento di ingresso. Ma non saranno i ticket a fornire una soluzione efficace: in realtà il modello Favara è un modello che difficilmente potrà divenire sostenibile perché quel territorio ha bisogno di investimenti tutt’altro che culturali, che riguardano in primo luogo la “mobilità”.
BUSINESS MODEL E INFRASTRUTTURE
Questo ci riporta alle due principali obiezioni che possono essere mosse al modello di sviluppo “filantropico” della cultura: la prima, di natura concettuale, prevede che se la cultura (che dovrebbe essere un’opportunità di sviluppo economico) viene demandata a iniziative di tipo filantropico, non si favorirà mai la nascita di “business model” che possano garantire un “futuro” a chi prende parte; la seconda, di natura pratica, riguarda invece la natura degli investimenti. In questo senso, Favara ne è un esempio: dall’impegno filantropico può nascere un’iniziativa meritevole, ma non possono nascere infrastrutture.
In altri Paesi questo dilemma è stato risolto con una collaborazione tra non profit, pubblico e privato for profit, e molto in questo senso si è discusso anche nel nostro Paese. Tuttavia, nella nostra Italia che vuol sembrar moderna ma che è governata dalle stesse persone che hanno costruito una carriera sull’associazionismo e sul ruolo del pubblico, una spinta realmente importante in questo senso sarà difficile vederla.
– Stefano Monti
http://www.farmculturalpark.com/
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