31 luglio. Sono in vacanza nella mia casa in Corsica, costretto a una mobilità ridotta a causa di una caduta. Vivo accanto al mare, ma le notizie con Internet mi raggiungono immediatamente come a Milano. L’ultima è quella di Condé Nast America, che ha deciso di chiudere L’Uomo Vogue e altre sue testate minori in Italia. Come progettista e primo direttore di questa rivista per tanti anni, sono amareggiato e sorpreso, ma non più di tanto. De tempo avevo intuito che l’editoria su carta avrebbe avuto dei problemi. In questo caso poi non si sarebbe trattato solo di problemi economici.
LA MISSIONE INIZIALE DE L’UOMO VOGUE
L’Uomo Vogue non era nato per dare consigli all’uomo per vestire alla moda come succede per le donne. Era nato negli Anni Sessanta per ribellarsi al modo di vestire tradizionale e borghese dei nostri genitori, sia dei ceti ricchi che poveri. Sono stati i Beatles i primi a contestare i padri inglesi, esagerati conformisti e teorici delle formalità, e a far capire attraverso la musica che il mondo stava cambiando e che anche l’aspetto esteriore delle nuove generazioni era destinato a trasformarsi insieme ai loro desideri. I giovani volevano, come sempre, apparire diversi dai loro padri. Rifiutavano le vecchie regole del passato. E fu proprio a Londra che nacque il nuovo modo di vestire.
DA LONDRA A MILANO
Tutti andavamo a Londra. In Kings Road, al posto dei soliti negozi, nascevano nuove boutique invitanti e alternative, con allestimenti incredibili, grafica e comunicazione sorprendenti. Vestiti mai visti prima, la minigonna era dappertutto, sia in vetrina che per la strada, anche col termometro sotto zero.
Per i ragazzi l’abito tradizionale veniva violentato in tutti i modi, perfino con maniche di colore diverso o con inserti di vari tessuti. Sotto i pantaloni a zampa d’elefante portavano stivali col tacco, e jabot di pizzo al posto della cravatta.
Qui sono nati i nuovi stilisti che vestivano le band musicali più famose. Non voglio approfondire la storia della moda di quel periodo. Mi limito a citare alcuni nomi: Ossie Clark, Mary Quant, Biba, Mr. Freedom, Antony Price…
Era questo il periodo e il clima che ha favorito e permesso la nascita e il successo di questa testata. Io con i miei ragazzi, redattori e fotografi, siamo stati gli entusiasti interpreti della rivoluzione sociale e di tutto quello che intorno a noi cambiava. In Italia L’Uomo Vogue fu la bandiera del cambiamento. Divenne il portavoce dei nuovi stilisti che fecero scomparire il sarto su misura. Contribuì alla scoperta e all’adozione dello stile militare (l’eschimo divenne il padre di tante versioni sportswear) tanto che Giorgio Armani realizzò su mia richiesta un’intera collezione per la nostra testata.
Contribuì a far capire il movimento hippy. I figli dei fiori con la loro filosofia di vita e con le loro scelte antitradizionali, non solo dei vestiti, hanno favorito la conoscenza di Paesi allora sconosciuti e di un modo di vivere libero promiscuo e diverso. C’è stata la scoperta degli abiti da lavoro e la loro importanza e influenza sulle nuove proposte dell’abbigliamento maschile.
NON SOLO MODA
L’Uomo Vogue ha sentito il bisogno di inserire nella redazione un grande studioso dei movimenti e dei sentimenti dei giovani come il sociologo Francesco Alberoni, perché la nostra testata voleva far capire che la moda aveva a che fare con la cultura e tanto altro. E, insieme a lui, altri intellettuali.
Abbiamo proposto e insistito con l’attenzione a tanti personaggi dalla forte personalità, come Picasso, per porre l’individuo al centro. Abbiamo messo in primo piano argomenti politici come la Cina di Mao Tse Tung perché massima testimonianza di un grande cambiamento epocale, dedicandogli perfino una copertina quando ancora era agli inizi e la giacca di Mao voleva dire molte cose.
Voglio solo sottolineare che L’Uomo Vogue non era solo una rivista di moda, anche se siamo stati i primi a far conoscere gli Armani, i Versace, i Saint Laurent e tutti gli altri che hanno cambiato il modo di vestire dell’uomo, fermo da più di un secolo.
LA FINE DI UN’EPOCA
Sono forse finiti i movimenti epocali? La moda e le mode vivranno sempre. Soprattutto la moda femminile, che ubbidisce all’esigenza della donna di apparire sempre diversa anche nello stesso giorno.
Oggi tutti abbiamo a disposizione nuovi strumenti per valorizzare la nostra immagine e la nostra personalità. La moda non è più irraggiungibile, tra e-commerce, lowcost, outlet, vintage e via dicendo. La globalizzazione e Internet hanno ampliato il mercato, che ha bisogno di grandi mezzi di comunicazione e di grandi capitali. È necessario offrire sempre novità, cambiamenti superficiali per stimolare l’acquisto di sempre più persone. È il momento della moda universale, che può mettere a disposizione sempre e rapidamente le sue novità in ogni parte del mondo.
La Condé Nast, presente nelle capitali più importanti, punta sulle testate più forti, quelle che valorizzano lo status symbol. Con la scelta di pubblicare soprattutto i nomi della moda che tirano. Il mercato bada al sodo. La cultura è un affare di nicchia. Al resto ci pensa il web.
– Flavio Lucchini
http://www.vogue.it/l-uomo-vogue/
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