Scultura lingua viva. In Trentino Alto Adige parola a Bruno Walpoth e Aron Demetz
Dallo Skulptur Projekte di Münster alle varie mostre e simposi in Trentino Alto Adige, quest’estate sono moltissimi gli eventi dedicati alla scultura. Alla Galleria Civica di Trento è in corso la prima importante rassegna sulla scultura lignea italiana: i protagonisti hanno tutti preso le mosse dalla Scuola della Val Gardena. Altri appuntamenti sono al Centro d’Arte Contemporanea di Cavalese e alla Galleria Doris Ghetta di Ortisei. Di legno e scultura abbiamo parlato con due artisti presenti in queste rassegne.
Nel mondo dell’arte contemporanea la scultura è stata vista come un linguaggio difficile a rinnovarsi, probabilmente per il suo essere connessa al saper fare, alla tecnica e alla rappresentazione. Il celebre saggio di Arturo Martini La scultura lingua morta ne è una testimonianza. La scultura lignea è ancor di più considerata passatista, poiché connessa al senso del sacro, al mondo religioso. Proprio l’importanza della tecnica e del saper fare non potrebbe invece essere una chiave di volta per l’arte contemporanea, esaurite tutte le possibilità del concettuale?
Aron Demetz: Sono contento che la storia dell’arte abbia dimostrato che tutto ciò non si sia avverato. Nuovi esempi hanno reso evidente che la scultura si rinnova, attraverso il saper fare o solamente concettualmente. Per fortuna non ci sono tendenze o stili che prevalgono, tutto trova il suo posto, e lo spettatore troverà il suo, influenzato dalla presenza, umore o sensibilità, nell’una o nell’altra direzione.
Nonostante tu abbia scelto di operare prevalentemente nell’ambito della scultura figurativa, gli intenti evocativi nella tua opera prevalgono rispetto a quelli della rappresentazione. Quale senso può avere la ieraticità che emana dalla fissità delle tue sculture nel mondo contemporaneo?
A.D.: Non cerco il senso, la ieraticità è un elemento pratico per semplificare il mezzo usato, nel mio caso la figura, per focalizzare l’attenzione sugli elementi a cui cerco di dare più importanza.
Non solo la conoscenza del legno, ma anche quella della vita degli alberi, sono assai evidenti nel tuo lavoro. Ad esempio l’uso della resina nelle sculture presentate alla Civica ha un valore esclusivamente coloristico o rimanda ad altro?
A.D.: Rimanda ad altro.
Significati e aspetti della cultura religiosa possono essere riattualizzati e indirizzati alla società contemporanea?
A.D.: Certamente
Il legno nei tuoi lavori appare sempre alterato, contaminato da resine, escrescenze come funghi, oppure bruciato. C’è da parte tua una riflessione sul tema dell’ibrido, del corpo che si trasforma aprendosi all’altro?
A.D.: Lavorando con una materia viva, inevitabilmente si viene a confronto con la sua essenza, e l’albero è composto da vari elementi che spesso entrano nel mio lavoro. Rappresentando con esso la figura umana, si creano a volte dei parallelismi.
Le sculture bruciate vengono realizzate attraverso “performance” non pubbliche, instaurando una relazione molto personale con l’opera. Hai mai pensato a un maggior coinvolgimento del pubblico durante il processo?
A.D.: No, è una scelta voluta, perché mi interessa maggiormente quello che resta rispetto all’atto in sé. Credo che il fuoco rimanga dentro l’opera anche in questo stato.
Per quanto riguarda il mercato, chi sono i tuoi maggiori acquirenti? A livello internazionale ci sono meno pregiudizi nei confronti della scultura lignea figurativa?
A.D.: È vero che la scultura lignea era legata principalmente alle sculture senesi o a quelle religiose in Italia, ma direi che sono sempre state accolte bene. Nei Paesi nordici sicuramente il materiale è più abituale, ma non vedo una grande differenza a livello contemporaneo.
Utilizzi anche dei processi non manuali, un tipo di fresatura computerizzata per ottenere le “sculture pelose”. L’innovazione può dunque avvenire anche a partire dalla tecnica e dalla conoscenza del materiale?
A.D.: La tecnica rimarrà sempre un attrezzo che sta a disposizione dell’arte, ma resterà il pensiero e il modo di usare l’attrezzo sul materiale che creerà l’arte. E l’artista potrà distinguersi soltanto mettendo insieme le due cose. La sgorbia ci dà delle possibilità, il robot delle altre, ma credo che alla fine saranno sempre a disposizione dell’opera, che deve essere convincente nell’insieme.
Bruno Walpoth, apparentemente le tue sculture sembrano semplici ritratti, ma poi ci si rende conto che quelli evocati sono sentimenti intimi. Il legno riesce meglio a catturare il pensiero rispetto agli altri materiali?
Bruno Walpoth: Mi interessa la figura umana assorta nei propri pensieri, quasi un po’ distaccata dalla realtà. L’aspetto formale è molto importante, ma io miro a catturare l’anima. Il modello, quindi, per me diviene più uno strumento, in quanto non è la somiglianza ciò che davvero mi interessa. Riesco meglio a realizzare ciò attraverso l’uso del legno, ma non è detto che anche con altri materiali non si possa arrivare a ritratti della stessa intensità. Io sono cresciuto lavorando il legno, ho imparato questo mestiere e almeno all’inizio ha rappresentato il mio materiale prediletto. Non penso però che altri artisti con materiali diversi non riescano a cogliere le stesse emozioni.
Anche tu comunque ti cimenti con altri materiali, penso ad esempio a Nadia, l’opera in cartone nella mostra a Cavalese.
B.W.: Sì, quelle opere per me sono più che altro esperimenti per uscire dalla routine del legno. Mi piace sperimentare per trovare nuove strade, anche se il legno, al momento, rimane per me il materiale più importante.
È molto interessante l’uso della pittura e il processo di verniciatura bianca sulla pelle scoperta delle tue figure. Cosa aggiunge il colore alla tua scultura?
B.W.: Crea sicuramente una vibrazione sulla superficie che penso sia importante, ma l’uso del colore nasce soprattutto dalla mia ricerca: durante il processo di lavoro serve a creare una situazione nuova, nel senso che uso già questo colore bianco a lavoro appena abbozzato, proprio per creare un momento nuovo. Con questa colorazione, la scultura mi risulta sotto un aspetto di ombre e luci diverso, in modo che riesco a cogliere meglio i difetti oppure a ripartire in un certo senso dall’inizio. Questo mi aiuta tantissimo a portare innanzi il lavoro, che poi continuo a ridipingere. Alla fine quello che si vede è il risultato del processo del lavoro e non una pittura apportata a conclusione dell’opera. Il colore viene così ad assumere la stessa importanza del processo scultoreo.
La mostra a Cavalese muove dall’idea che le Alpi rappresentino un ponte verso il Mediterraneo. Cultura nordica che evoca solitudine, meditazione silenziosa; e cultura mediterranea come accoglienza, apertura. Come si relazionano le tue opere con quelle di Omar Galliani?
B.W.: Io non trovo tanta differenza: nelle sue opere c’è lo stesso silenzio che si può percepire nelle mie. Penso che si collochino in un contesto simile e dialoghino molto bene. La differenza è più il frutto di un’interpretazione data dal curatore.
Anche tu sei un artista molto apprezzato all’estero. Chi sono i tuoi maggiori acquirenti?
B.W.: I miei collezionisti sono prevalentemente di nazionalità nordica, i miei lavori vengono apprezzati maggiormente da quella cultura, più chiusa, introspettiva. In Italia il pubblico fa più fatica. Le mie sculture vengono viste come se portassero in sé una certa malinconia, tristezza. Il nordico si ritrova di più in questo elemento.
Anche la grande tradizione della scultura lignea in Germania fa sì che lì il tuo lavoro sia più facilmente apprezzato.
B.W.: Certo, in Germania a partire dal Rinascimento la scultura in legno ha avuto un grande sviluppo. Poi artisti come Balkenhol hanno catalizzato di nuovo l’attenzione su di essa nell’arte contemporanea. In Italia invece era quasi sparita e noi come gruppo della Scuola della Val Gardena siamo riusciti ad avere un certo successo in questo campo.
In Italia ci sono molti pregiudizi nei confronti della scultura figurativa e di quei linguaggi che all’apparenza si discostano maggiormente dalle tendenze concettuali e poveriste. Hai incontrato difficoltà nel proporre il tuo lavoro all’interno del sistema italiano delle gallerie?
B.W.: Ho l’impressione che qualcosa stia cambiando. Anche grazie ad Aron Demetz con la partecipazione alla Biennale, il suo essere molto conosciuto, e la mostra di Gehrard Demetz in corso al Macro di Roma. Tutto questo sembra far sperare che anche in Italia il legno non venga più considerato solo in collegamento all’artigianato come veniva visto qualche decennio fa, ma come materiale con cui si crea arte.
La manualità, l’importanza del saper fare, le conoscenze tecniche come possono apportare dei cambiamenti nel campo dell’arte contemporanea?
B.W.: Penso che il fatto di conoscere un mestiere per riuscire a creare un’opera d’arte sia stato lasciato per lungo tempo totalmente da parte. Con le nuove tecnologie, da una parte manualità e saper fare tendono a scomparire, dall’altra acquistano di nuovo valore, perché ci sono sempre meno persone che vi ricorrono.
Il mercato della scultura è molto più limitato rispetto a quello della pittura. Anche se a partire dagli Anni Settanta–Ottanta c’è stata una svolta, con un maggior apprezzamento da parte delle aziende e delle banche, anche per il potere comunicativo della scultura monumentale. Come si potrebbe estendere il mercato della scultura lignea in Italia?
B.W.: Ho visitato la grande mostra dedicata alle sculture di Damien Hirst a Venezia e questo mi fa pensare che qualcosa stia cambiando. La scultura sta acquistando importanza. Anche per quanto riguarda la scultura lignea, credo semplicemente che più ci si fa vedere, più nasce l’interesse, perché il legno è un materiale bellissimo, può essere dappertutto e ha la sua importanza come il marmo e il bronzo.
Questo è certamente un anno interessante per la scultura: basti pensare allo Skulptur Projekte di Münster e – per tornare in Italia – alla rassegna sulla scultura in legno alla Galleria Civica di Trento, novità assoluta in Italia.
B.W.: Per noi scultori gardenesi è un momento fantastico, perché anche come gruppo abbiamo potuto mostrarci tutti assieme. Ci fu un’altra occasione, anni fa, in Olanda al CODA Museum, eravamo più o meno gli stessi. Adesso ci presentiamo a un pubblico più vasto.
Qual è stato il maggiore apporto della Scuola gardenese al tuo lavoro?
B.W.: La Scuola gardenese ha avuto per me e per gli altri un’importanza enorme. Quasi tutti siamo cresciuti in bottega con un maestro artigiano e lì abbiamo imparato questo mestiere, frutto di una grandissima tradizione ormai di quattro secoli, una cosa unica al mondo. Sebbene siamo nati in questo contesto artigianale, siamo però riusciti a liberarci, anche in seguito alla crisi dell’artigianato, che ha condotto a nuovi esperimenti e ricerche.
C’è un tratto comune in tutti gli scultori gardenesi: la figura eretta statica. Ti ci riconosci?
B.W.: È il tratto che ci accomuna. Ci siamo influenzati a vicenda perché ci incontriamo spesso, abbiamo disegnato assieme. Per me questo scambio, questa influenza di idee sono stimolanti. La posizione eretta e statica è tipica del nostro gruppo. Io spesso rappresento figure a mezzo busto, che comunque mantengono una posizione statica. Nelle mie sculture, infatti, non ci sono grossi movimenti, perché io non voglio raccontare nulla. L’aspetto narrativo risulta ridotto affinché non si venga influenzati dal movimento stesso e si colga così l’essenza, l’aspetto interiore.
– Antonella Palladino
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