Art People Voices. Parola a Franco Lizza
Nuovo appuntamento con la serie di interviste a giovani collezionisti italiani. Qui abbiamo a che fare con un notaio – non sono tutti ottuagenari! – che ha pure inventato un’espressione curiosa: retrocollezionare.
Notaio genovese nato nel 1984, tesoriere degli Amici del Museo di Villa Croce dal 2013, Franco Lizza ha ereditato dal nonno e dal padre la passione per l’arte. Anche grazie ai consigli di collezionisti più navigati (tra cui Sergio Bertola) acquista prevalentemente installazioni e fotografie di artisti della sua generazione, italiani e stranieri, tra cui Luca Vitone, Luca Trevisani, Moira Ricci, Massimo Bartolini, Micol Assaël, Andrea Kvas, Tomás Saraceno, Joan Jonas, Gusmão + Paiva, Michael E. Smith, Neïl Beloufa, Uriel Orlow e Igor Grubić.
È uno degli inventori del termine ‘retro-collezionare’, pratica che molto raramente frequenta, almeno finora.
Da quanti anni collezioni e quante opere possiedi?
Ho iniziato a collezionare arte contemporanea in modo autonomo nel 2009. Attualmente possiedo una quarantina di lavori.
Cosa cerchi in un’opera?
La componente emozionale svolge un ruolo fondamentale nella scelta. L’empatia che si crea con l’autore e la sua creazione rappresenta la prima e più autentica via con cui mi relaziono con l’arte. Per dirla con Heidegger, quello che mi interessa in un’opera d’arte non è la rappresentazione delle cose in sé, ma il tentativo di svelare la loro essenza. Forse per questo motivo la fotografia ha un ruolo così centrale nella mia collezione.
Quali artisti stai osservando in questi mesi?
Ripercorrendo gli acquisti dell’ultimo anno, mi sono focalizzato sempre più sulla fotografia: due opere di Armin Linke della serie su Carlo Mollino, una fotografia storica di Lisetta Carmi e alcuni interessanti lavori di Joanna Piotrowska e di Renato Leotta. Fanno eccezione due sculture recentemente entrate in collezione: i lavori di Alis/Filliol e di Alice Ronchi.
Biennale e Documenta.
Queste manifestazioni dovrebbero cogliere il senso del “contemporaneo” e mostrare le contraddizioni del nostro tempo, i molti “sentieri interrotti”. Per quel che riguarda la Documenta, mi pare che il ponte ideale gettato verso Atene dica già molto circa la direzione in cui guardare. Quanto al Padiglione Italia della Biennale: seguo da tempo, e con grande interesse, il lavoro di Giorgio Andreotta Calò e di Adelita Husni-Bey.
– Antonella Crippa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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