Due artisti, anzi uno. Intervista a Maicol & Mirco
Uno degli artisti più enigmatici della scena italiana contemporanea ha svelato le origini della sua identità, con una mostra che mescola le carte. Tra personale e collettiva, tra disegni e video, prende forma una creatività che parla al plurale.
Lo scorso 8 luglio, presso il Museolaboratorio Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo, in provincia di Pescara, è stata inaugurata la prima mostra antologica, aperta fino al 2 settembre, di Maicol & Mirco (all’anagrafe Michael Rocchetti) dal titolo inequivocabile Maicol è Mirco.
In occasione di questo evento siamo riusciti a distogliere momentaneamente Rocchetti dalle sue molteplici attività e a fargli un po’ di domande, spesso più lunghe delle risposte, non solo sull’esposizione ma anche sul particolare stile che caratterizza le sue produzioni.
Partiamo dalla cosa più recente e dalla domanda più scomoda: la tua prima mostra antologica si intitola Maicol è Mirco, come mai la decisione di risolvere l’enigma che in qualche modo ha dato inizio alla tua fama artistica? Cosa ti ha spinto a fare questa rivelazione?
Quale enigma? Il titolo è un errore di battitura. Come tutti i bei titoli.
Pur non essendo una mostra collettiva, all’interno dell’esposizione è possibile trovare, oltre ai tuoi lavori, anche opere di altri artisti/amici. È giusto affermare che la loro presenza sia funzionale alla percezione dell’humus creativo che, nel corso degli anni, ha delineato il tuo stile personale?
Ognuno di noi non contiene una sola persona. Ognuno di noi è un asilo. Nel nostro asilo non ci sono solo maicol e mirco, ma migliaia di altre persone.
Per questo evento abbiamo deciso di mettere in mostra alcuni nostri ospiti, quelli adottati nel nostro percorso artistico.
A proposito del Museolaboratorio Ex Manifattura Tabacchi: nonostante la collaborazione con artisti contemporanei affermati del calibro di Bianco-Valente, Maria Morganti e Alterazioni Video, solo per citarne alcuni, lo spazio si presenta come una sperimentale fucina di idee e luogo relazionale più che come un museo vero e proprio. Un progetto simile si addice molto alla tua propensione eclettica: come sei entrato in contatto con questa realtà e che tipo di output hai ricevuto da questa esperienza?
Col Museolaboratorio ci siamo scontrati nel 2000. Si tratta di un luogo magico: è Museo quanto basta e Laboratorio quanto serve. Per noi è casa. Anzi! Da poco abbiamo poi scoperto che ci sono i fantasmi. Quindi per noi è casa infestata.
Con quale criterio hai scelto i lavori esposti all’interno della mostra? Da che periodo partono e dove arrivano?
Dieci anni di disegni, quadri e video. Dal 2010 al 2017. Anzi al 2070, perché abbiamo preso anche qualche lavoro dal futuro.
L’attesa e i tempi riflessivi sono degli elementi centrali di tutta la tua produzione artistica, dai fumetti ai libri illustrati fino all’ultima trasposizione teatrale degli Scarabocchi. Questa sorta di invito alla contemplazione si riflette anche nell’allestimento minimale dell’antologica, correggimi se sbaglio…
Quello che dici è perfetto. Facciamo da sempre tanto con poco. Unica nostra legge.
Ti andrebbe di parlarci brevemente del tuo processo creativo? Quanto incide il medium che utilizzi nella realizzazione di un progetto? Mi riferisco in particolar modo a un parallelismo fra le tele e le illustrazioni vettoriali.
Facciamo quello che vogliamo quando lo vogliamo. In quantità industriale. Poi in maniera postuma lo rivendiamo e lo ricollochiamo.
Cambiando discorso e prendendo in considerazione gli ultimi due libri che hai realizzato per Bao Publishing, Palla Rossa e Palla Blu e Il papà di Dio: seppur profondamente diversi, gli argomenti trattati (una storia di amicizia indirizzata ai bambini nel primo e una lunga, ma essenziale, riflessione su rischi e responsabilità della genesi nel secondo) sono comunque carichi di una poesia e di speculazioni filosofiche che non sempre si riescono a trovare nei libri illustrati.
Come riesci a trasmettere la stessa poetica rivolgendoti però a fasce di lettori completamente diversi? Quale tipo di pubblico preferisci?
Da sempre ci risulta più difficile comunicare con gli adulti che con i bambini. Gli adulti sono bimbi con manie di grandezza. Capito questo, tutto diventa facile.
Da un po’ di tempo a questa parte ti stai dedicando non solo all’arte del fumetto, ma anche alla sperimentazione di altri linguaggi, come il teatro. Qual è il tuo rapporto con questa “incontinenza creativa”? Non avverti il bisogno di essere riconducibile a un unico tipo di prodotto? Cosa ne pensi delle etichette?
Noi produciamo Storie pure. Quindi è normale che straripino in altri oceani comunicativi. Comunque il lavoro teatrale è tutto in mano al Teatro Rebis. Sono loro ad aver ri-raccontato le nostre Storie. Noi dei nostri spettacoli siamo solo spettatori. Spettatori di noi stessi. Autospettatori.
Qualche piccola anticipazione sui progetti futuri?
Con tutti i guai che ci hanno portato il passato e il presente, preferiamo tacere sul futuro.
Una frase conclusiva che direbbe uno dei tuoi scarabocchi?
Polvere eravamo e polvere ritorneremo. Questo mondo l’abbiamo solo impolverato.
‒ Valerio Veneruso
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