Glam, rock e arte. Intervista ai White Hills
Attitudine glam e arte come influenza primaria sono i tratti di questo duo space/psych-rock newyorchese. Lo abbiamo intervistato in occasione del tour legato all’uscita del nuovo album, Stop Mute Defeat, ispirato alla scena club della New York di fine Anni '70 e primi Anni '80.
Pervasi dal clima di New York fortemente portato all’avanguardia, al confronto e alla sperimentazione, attraversati dall’energia creativa e dallo spirito reazionario della città che non dorme mai, i White Hills, duo americano composto da Dave W. e Ego Sensation, penetrano la smania contemporanea con un sound ipnotico e perseverante. Indiavolati trascinatori di un viaggio cosmico eccitato, fisico e a tratti psichico se non proprio psichedelico, col procedere hanno sfornato un numero rilevante di album confermandosi una delle band più prolifiche del panorama musicale odierno. Evolvendosi continuamente, pur mantenendo la morfologia space-rock che li ha sempre caratterizzati, sono giunti all’ultima pubblicazione, Stop Mute Defeat.
Durante i loro concerti, il pubblico è incitato dalle movenze di Dave, dalla sensuale chioma bionda di Ego, dalle pose glam di entrambi e, soprattutto, dai ritmi prolungati e ripetitivi che tengono i neuroni massimamente connessi a un impianto sonoro/visivo in ebollizione. Incontrarli durante il tour è stata un’occasione importante per conoscerli meglio.
Come nascono i White Hills?
Dave W.: Mi sono trasferito a New York verso la fine degli Anni ‘90. Prima vivevo a San Francisco, facendo grosso modo quello che faccio ora. Ho lasciato San Francisco all’inizio del primo boom economico del “dot com” quando ormai la vita artistica della città era in declino.
Appena arrivato a New York ho suonato in varie band sparse per la città, ma, non essendo particolarmente partecipe al processo creativo di queste band, ho iniziato a registrare nel mio appartamento quello che poi sarebbe diventato il primo lavoro dei White Hills. Prima di finirlo ne ho inviato una copia a Julian Cope, musicista e autore outsider della scena inglese, che si è offerto di produrlo con la sua ormai defunta etichetta Fuck Off & Di. Da questo momento in poi sono stato in grado di manovrare questo potenziale energetico con l’aiuto di Ego Sensation, di fatto l’unico membro costante della band.
Sinceramente non penso che New York sia una città dove semplicemente si vive e si lavora, ritengo invece sia più simile a un sistema arterioso in continuo scorrimento, a cui si rimane ininterrottamente collegati.
D. W.: Direi che questa è una buona sintesi. Sono nato a New York, ma sono cresciuto a San Francisco. A un certo punto ho lavorato in un negozio di bagel nel quartiere di Haight Ashbury. I proprietari, originari di New York, un giorno mi presero da parte e mi chiesero da dove venissi, io risposi San Francisco. Quasi all’unisono mi dissero: “No, dove sei nato?”. Risposi New York. Al che loro commentarono: “Lo sapevamo”. Non ho capito davvero quello che volevano intendere fino a quando mi trasferii a New York.
Ego Sensation: New York ha una vitalità e un dinamismo che non ho trovato da nessuna altra parte. Uno dei miei passatempi preferiti è semplicemente camminare per le strade di Manhattan per osservare le persone, i palazzi, il traffico e la natura. C’è un ronzio costante che si insinua nelle persone creative in maniera molto positiva. Ci sono tante cose che scorrono contemporaneamente: concerti, performance di danza, teatri, reading, teatro d’opera, mostre in gallerie e musei, performance di strada e tantissimo altro. C’è sempre qualcosa da cui essere ispirati e l’energia è contagiosa.
Nella vostra musica s’intravedono i germi di un’attitudine artistica che va oltre quella musicale, che mi spingerebbe a un confronto svincolato dalle solite comparazioni musicali che vi accostano a Hawkwind, Loop, Can, PIL, Stooges ecc. Mi riferisco invece all’impatto nel vostro lavoro della NYC artistica, quella dei musei e delle mostre. Ci sono degli artisti che vi ispirano in maniera particolare?
D. W.: Sicuramente ci sono tantissimi artisti che mi ispirano. Raymond Pettibon, Mark Leckey, Angelika Margull, Bruce Conner, Yoko Ono, Cameron Jaime, Cosey Fanni Tutti e Mark Pauline (Survival Research Laboratories), giusto per citarne alcuni.
E. S.: Essendo una filmmaker traggo ispirazione dai miei registi preferiti che sono Wes Anderson, John Waters, the Brothers Quay, Guy Maddin, Jim Jarmusch, Pedro Almodóvar, Federico Fellini, Ingmar Bergman, Fritz Lang, Mel Brooks e molti altri. Inoltre traggo ispirazione da una tonnellata di artisti che lavorano in campi diversi quali Lucas Samaras, Max Ernst, James Ensor, Otto Dix, Ernst Kirchner, Richard Avedon, Marina Abramović, Cindy Sherman…e l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito.
Dave, tu sei un pittore. In cosa consistono i tuoi lavori?
D. W.: Ultimamente ho lavorato a una serie di pezzi nati dalla fascinazione verso i “fosfeni”. Il fosfene è un anello o una macchia di luce che si produce quando chiudiamo gli occhi. Da quando ho iniziato a meditare, i miei fosfeni hanno assunto una nuova vita. I colori, ora molto più vividi, producono più immagini e movimenti di prima. A volte capita che assumano un effetto 3D che pulsa e respira. Le mie attuali opere riflettono questo. L’osservatore è incoraggiato a fissarle profondamente lasciando andare lo sguardo dentro e fuori, per vedere così le parti iniziare a muoversi. Alcune sono dipinti singoli, mentre altre sono multipli di tele in grado d’ampliarne maggiormente l’impatto e la percezione.
Quali affinità, differenze o sconfinamenti possono svilupparsi tra i processi creativi musicali e quelli visivi?
D. W.: Il mio approccio alla musica e alla pittura è simile. Lascio che sia la mia creatività a parlare per me. È lei che mi dice dove andare e quando fermarmi. I percorsi che di volta intraprendo mi portano a sviluppare un’idea solitamente diversa da quella che avevo immaginato all’inizio.
C’è sicuramente una componente glam accanto alle etichette di spacemusic, psichedelia che vi vengono attribuite in ogni articolo, voi però come vi definireste? Qual è l’identità dei White Hills?
E. S.: La nostra identità è radicata nel nostro desiderio di volere continuare a creare lavori originali. È vero che stampa ed etichette discografiche ci definiscono con gli stereotipi di “psichedelici” o “space rock” per semplicità ma, in quanto artisti, non ci sentiamo di appartenere a nessun genere specifico.
D. W.: Personalmente ritengo che la nostra musica sfugga le categorizzazioni dei singoli generi. Non è solo glam, spacemusic o psichedelia, è tutto questo ma anche altro. È la somma artistica di cosa io ed Ego abbiamo ingerito singolarmente nelle nostre vite e sputato fuori insieme, una realtà sfaccettata e multidimensionale che risuona nel campo unificato dell’esistenza.
Stop Mute Defeat inizia denunciando le “seduzioni subliminali” dei discorsi politici ed economici. All’interno della cover non vi sono i testi ma vi è scritto: “Hypnotism of materialism… to want will enslave you. Watch out… technology will not always win”. Un incipit che è un programma d’intenti, forse si tratta di ammonimenti lanciati ai vostri fan affinché rimangano liberi.
D. W.: Io ed Ego scriviamo di quello che vediamo. Non voleva essere né una critica né un avvertimento. L’album è stato scritto con l’intento di responsabilizzare le persone. Mute Defeat fa riferimento al fatalismo, alla cieca obbedienza e all’indifferenza. Chiunque può sconfiggere il silenzio (Stop mute defeat) diventando responsabile nel caos della vita moderna. Tutti quanti abbiamo il potere d’usare i nostri soldi in modo socialmente ragionevole, per porre fine alla distruzione sistematica del nostro pianeta e alle società rampanti che hanno preso il controllo del nostro sistema economico attraverso misure politiche e sociali. Non siate apatici o pessimisti, intervenite personalmente per creare il cambiamento che volete vedere.
‒ Domenico Russo
https://whitehills.bandcamp.com/track/stop-mute-defeat
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