Incubo Eraserhead. Il primo film di David Lynch torna al cinema
Se siete impressionabili, lasciate perdere questo film. Effetti speciali pochi e rudimentali, ma l’horror c’è tutto e non dà tregua. Un film enigmatico, popolato da creature mostruose e allucinazioni, considerato un capolavoro del cinema mondiale. Il primo lungometraggio di David Lynch torna in sala dopo il restauro. Il racconto e un’analisi.
Notturno a dir poco. Enigmatico, come solo un’opera di David Lynch sa essere. Ossessivo, dal primo all’ultimo fotogramma: a partire dal sonoro che ipnotizza, lasciando pochissimo spazio ai dialoghi e funzionando come una partitura simbolica sperimentale.
Ma Eraserhead è soprattutto un film spaventoso. Una strana pellicola che pare fatta della stessa sostanza degli incubi: molle, sfocata, opaca, tossica. Nessuna distanza tra i sentieri oscuri dell’inconscio e il racconto sullo schermo. Con la differenza che, da svegli, quel senso di offuscamento onirico, quelle immagini grevi come sabbie mobili, soffocanti come nebbia sulla soglia, si fanno fastidiose. Insopportabili. A un certo punto una nausea sottile s’insinua tra l’occhio, lo stomaco e il cervello, durante una discesa spericolata verso la più profonda dimensione dell’umano.
UN FILM CHE NON VEDEVA LA LUCE
Eppure, questo primo lungometraggio di Lynch – concluso del 1977 dopo cinque anni di gestazione – è con la variabile “inumana” che fai conti. Un film su quello che siamo quando la ragione si sospende e la paura si trasforma in orrore, quando il mostruoso si ridesta e l’alienazione lo lascia venire. Un film in cui c’è già tutto il talento da outsider del regista americano, tutta la sua predilezione per storie allucinate ed eccentriche, avvitate su sé stesse, senza centro né narrazione.
L’occasione per rivederlo è arrivata il 4 settembre, con l’avvio di una programmazione nelle sale italiane a cura della Cineteca di Bologna per il progetto Il Cinema Ritrovato. Al cinema: si tratta della versione restaurata in USA dal National Film Registry. E sono passati 45 anni da quel giugno del 1972, quando uno studente ventiseienne del Center for Advanced Film Studies di Los Angeles decideva di avviare la sua prima, complessa produzione. Il budget lo metteva l’American Film Institute, insieme alla location: una tenuta a Beverly Hills in cui Lynch – già padre di una bambina e prossimo al divorzio – aveva impiantato uno studio di montaggio, ma anche un giaciglio temporaneo. In quella casa dormì per molti mesi, proprio sul letto del protagonista, mescolando pericolosamente realtà e finzione.
Terminati i fondi, Lynch era entrato in un loop ossessivo: come finire il film? L’unica cosa che sapeva era che doveva metterci un punto. O rischiava di restare intrappolato dentro quell’assurda storia, per sempre. Sollecitato dalla famiglia si mise a cercare lavoro e iniziò presto con le consegne a domicilio del Wall Street Journal. I risparmi gli servirono per portare a compimento il suo viaggio.
Scrive lui stesso nel libro In acque profonde. Meditazione e creatività: “Durante i cinque anni necessari per terminare le riprese di Eraserhead pensavo di essere morto. […] Mi dicevo: ‘Eccomi qui, in questa dannata cosa. Non riesco a finirla. Il mondo mi sta lasciando indietro’. Avevo smesso di ascoltare musica e la televisione non la guardavo comunque. Non volevo che mi raccontassero cosa mi succedeva nel mondo perché per me era come morire”.
LA STORIA
Parlare di “trama”, a proposito di Eraserhead, è forse inappropriato: un flusso di visioni, piuttosto, che si annoda e si snoda intorno a un nucleo centrale. Il protagonista, Henry Spencer, triste impiegato di una tipografia, vive dentro una triste stanza in una ancor più squallida cittadina senza nome. Invitato a casa dei suoceri, per una cena di riconciliazione con l’ex fidanzata, si trova davanti a una specie di famiglia Addams, ma senza ironia né amore: follia, paranoia e un senso di morte che aleggia, opprimente.
Primo dettaglio mostruoso: il pollo servito in tavola inizia a muoversi e a sanguinare sul piatto, non appena Henry infilza il coltello. Un indizio grottesco che anticipa l’epilogo. Poi, la rivelazione: la ragazza aveva da poco partorito e la creatura – nata prematura – si trovava in ospedale. I due tornano insieme, vanno a vivere nella camera di lui e portano con sé il “bambino”. O meglio, il “girino”: Mary aveva dato alla luce un feto senza arti, dai lineamenti mostruosi e dalla consistenza gelatinosa. Interamente fasciato e adagiato sul tavolo, l’esserino non smette di gemere, fino al punto che la madre, esaurita, fugge via. Henry e il piccoletto restano da soli nel tugurio.
La storia procede con incubi notturni, lunghi silenzi, un amplesso tra Henry e la vicina di casa, dettagli inquietanti sbocciati nella stanza e un’improvviso stato febbrile del bebè, copertosi di pustole. Lunga la catena di allucinazioni: dalla donna in bianco con le guance deformi, che danzando su un teatrino calpesta decine di girini-spermatozoi, alla morte di lui per decapitazione: la testa finisce in una fabbrica e il cervello viene usato come materia prima per la fabbricazione di gommine per matite. Da qui il titolo, Eraserhead, un doppio senso sul concetto di testa che cancella (quella di Henry e quella del lapis).
Immancabile il finale truce. Il padre uccide il figlio, squartandolo con un pugnale e ritrovandosi al centro di uno sconquasso: un cortocircuito elettrico, un’esplosione della terra nello spazio, un suono ancestrale, un buco nero, la figura diabolica di un fabbro. L’ultima fuga sarà ancora nel sogno, annebbiata, lattiginosa, estatica, fra le braccia della candida fanciulla col volto deforme.
LO SPIRITUALE NELL’ARTE DEL CINEMA HORROR
Non è facile – né opportuno – cercare di imbastire un’interpretazione chiara di questo piccolo capolavoro. Il solo tentativo sarebbe già all’antitesi del cinema di Lynch, costruito per frammenti, tracce, intersezioni, con una sorta di movimento a spirale: la linea del tempo e quella del senso escludono l’orizzontalità, la progressione storica, la trasparenza e l’organicità. I segni si generano gli uni dagli altri, opachi, lungo traiettorie sotterranee; e i significati si moltiplicano secondo una chiave immaginifica. È il film a inseguire se stesso, mentre il regista prova a tenere insieme la struttura, a orientare il flusso e a decodificare quanto affiora. Un processo fatto di ascolto e di controllo, di passività e di azione, affine al surrealismo o all’espressionismo astratto: c’è una ragione segreta che sospinge il groviglio primordiale e c’è un occhio attento che organizza il movimento, costruendo la forma o il racconto.
“Eraserhead è il più spirituale di tutti i miei film. Quando lo dico nessuno capisce, ma è così. Eraserhead si stava sviluppando in una certa direzione, e non avevo idea di cosa volesse dire. Cercavo la chiave d’accesso al significato di quelle sequenze. Qualcosa capivo, ovviamente, ma non sapevo quale fosse il cemento che teneva insieme tutto il film. Una bella fatica. Così tirai fuori la Bibbia e iniziai a leggerla. Un giorno lessi una frase. Chiusi la Bibbia: era fatta. Fine del discorso. Allora vidi il film come un tutt’uno. La frase completò questa visione al posto mio, al cento per cento. Penso che non rivelerò mai quale fosse quella frase”.
Non conosceremo mai la frase rivelatrice, né avremo da Lynch un’esegesi definitiva in chiave biblica. Il mistero è parte del film stesso. Ma è chiaro che tutto ruota intorno a un tema portante: la gravidanza, il parto, la nascita. E il sacrificio finale. Il riferimento ai testi sacri è già tutto in questa potente evocazione.
L’ALTRO, IL SACRO E L’INFORME. SULLE TRACCE DI BATAILLE
Nel fitto labirinto di simboli e ossessioni, valorizzato dal bianco e nero denso della fotografia di Elmes e Cardwell, ci si muove a tentoni, smarrendo le coordinate. Un continuo trapasso dall’eccitazione del sogno allo squallore quotidiano, restando incastrati in una zona d’ombra di cui la piccola creatura deforme è metafora inguardabile.
Negare il mostruoso che ci abita – l’altro, il perverso, il disturbante, la parte maledetta, ciò che non ha forma e non si lascia domare ‒ è impresa destinata al fallimento. Questo sembra ricordarci Lynch, con la sua prima, complessa rappresentazione dell’osceno in forma uterina, psicanalitica, spirituale. E il pensiero va a quella eterologia introdotta da George Bataille, scienza che studia ciò che è radicalmente altro: il “corpo estraneo” ‒ su un piano estetico, politico, antropologico ‒ è una “forza sconosciuta e pericolosa”, contrapposta all’omogeneo e connessa al meccanismo dell’espulsione (i cadaveri, i liquidi corporei, la sessualità, gli scarti, gli escrementi, i tabù e i rituali religiosi…). In una coincidenza clamorosa con tutto ciò che è “sacro, divino o meraviglioso”, e dunque altro, intoccabile, spaventoso.
Ed è l“informe”, concetto chiave del pensiero bataillano, ad animare i 90 minuti di Eraserhead: quel fattore di disgregazione, declassamento e disfacimento, secondo il quale “l’universo è qualcosa come un ragno o uno sputo“. Le molte immagini disgustose del film trovano allora un possibile riflesso nello spazio oscuro in cui il Bataille raccontò l’abisso della carne e l’esperienza interiore, l’orrore e il desiderio, l’estasi e la violenza, la santità e l’oscenità, la ferita e il trapasso, il sacrificio bestiale e la trascendenza: “Con la distruzione di un oggetto d’importanza vitale si spezzava in un punto il limite del possibile: l’impossibile, in questo punto, era liberato da un crimine, messo a nudo, svelato”.
Così, il corpo estraneo partorito da una comune mortale, col seme di un uomo qualunque, veniva trafitto da una lama su un tavolo sacrificale domestico, dando in pasto all’occhio le sue interiora. Con la morte del piccolo essere informe la fine delle cose era compiuta: l’apocalisse nel perimetro della stanza. Fra impulso, rimorso, stupore e rivelazione, l’ultima visione di Henry segnava l’accesso a una coscienza nuova.
‒ Helga Marsala
http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/eraserhead
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati