Artista vs omologazione. Un dialogo con Frie Leysen
La curatrice belga, vincitrice nel 2014 del più importante riconoscimento europeo per la cultura, il Premio Erasmo, nonché del Premio Franco Quadri per gli Ubu nello stesso anno, invitata da Masque Teatro, dialoga con Catia Gatelli e il pubblico sulla responsabilità del curatore per una nuova definizione di artista capace di resistere alla proliferazione di festival sempre più omologanti e semplificati.
“Sono una programmatrice”, esordisce Frie Leysen, presente al Festival Crisalide di Forlì, “ossia colei che ha il compito di essere antenna e captare ciò che preoccupa gli artisti. A partire da questi bisogni il programmatore mette al centro gli artisti e il loro lavoro. Il curatore invece mette al centro se stesso, il tema, e solo in un secondo momento cerca quegli artisti che possano dimostrare la sua intelligenza e il suo buon gusto”.
Chi sono allora gli artisti?
Credo che la maggior parte di noi non sia in grado di capire e gestire ciò che accade nel mondo, perché non abbiamo il tempo di riflettere, nonostante il bisogno di capire. La società sa organizzarsi affinché una categoria di persone si conceda il tempo per analizzare l’esistente e criticare la realtà: questi sono gli artisti.
Abbiamo bisogno degli artisti per respirare e vivere. Ma molti salgono sul palco, ci zittiscono per due ore e non hanno nulla da dirci.
Dobbiamo restare esigenti, ed esserlo è un modus vivendi che richiede responsabilità. E poi dobbiamo scegliere se vogliamo investire nell’intrattenimento, nella cultura o nell’arte. Sono tre ambiti diversi con logiche e requisiti diversi tra loro, creare miscugli non produce nulla di sano.
Qual è allora il ruolo dei festival?
Molti festival sono nati dopo La Seconda Guerra Mondiale con lo scopo di condividere cultura e valori. Molti di questi oggi hanno perso il senso di realtà e ogni nesso con ciò che avviene nel mondo. Ogni festival ha delle regole e gli artisti sono costretti a ubbidire.
L’artista ha la propria modalità di collegarsi con il mondo, un mondo ancora abitato da dinosauri restii all’estinzione. Quando le fu consegnato il premio Erasmo lei disse “occorre combattere i dinosauri”. Cioè?
I dinosauri sono le istituzioni che mancano di flessibilità per reagire a ciò che accade nel mondo. I dinosauri hanno la testa piccola, incapaci di gestire la loro stazza, rimangono in vita grazie alla borghesia, che è sulla stessa lunghezza d’onda. La nostra responsabilità è rendere flessibili queste strutture affinché seguano i bisogni degli artisti e vi si mettano al servizio.
Un esempio?
Il festival di Vienna è un grande dinosauro, è corrotto del voler piacere a tutti. E l’artista in questo contesto è il nulla. Se non si amano gli artisti, si deve fare un altro lavoro.
Come combatterli?
Piuttosto che cercare di combattere i dinosauri, conviene canalizzare le energie altrove e immaginare altri mondi. Purtroppo i dinosauri mangiano la maggior parte del budget e occorre grande inventiva per cercare di fare con pochi mezzi il massimo del lavoro artistico possibile. Proliferano i direttori che promettono di cambiare il mondo, ma loro stessi sono l’esempio più calzante di corruzione. Dobbiamo ritrovare la credibilità e la fiducia nel pubblico e l’intesa tra le parti in campo, artisti, pubblico e organizzatori.
Gli assessori però chiedono i numeri…
È necessario comprendere ma non consentire. Non è il numero che avvalora la qualità. Perché parliamo sempre di quantità? Nessuno osa dire cosa si intenda per qualità. Perché usiamo il numero? Perché è comodo. Siamo cani domestici, obbediamo in maniera passiva. Credo che il mondo dell’arte sia diventato troppo gentile e morbido, mentre dovremmo essere un luogo di resistenza. Quello di cui mi accorgo è che tutti vogliono piacere a tutti: ai politici perché abbiamo bisogno dei sussidi, al pubblico perché vogliamo che venga, alla stampa perché amiamo una recensione positiva e ai colleghi perché ci piace essere nel gruppo.
L’arte non esiste per piacere, non è fatta per piacere, ma per disturbare.
Radicalità o coerenza allora?
Ognuna delle nostre vite è caratterizzata da compromessi per convivere con la società. L’arte non deve scendere a compromessi. E se l’arte è fatta per piacere a tutti mi chiedo a cosa serva. L’arte deve essere una zona franca per lo sviluppo del libero pensiero e della resistenza. Abbiamo bisogno di una nuova radicalità.
Come coniugare la radicalità con l’urgenza che ha l’artista di comunicare?
L’artista non si deve lasciar soffocare dall’accadere del mondo ma deve dare una priorità potente al proprio sentire. E il pubblico deve avere accesso a ciò che l’artista ha espresso.
Quindi sono necessari dei mediatori. Può esserlo il programmatore della rassegna?
No. Non dobbiamo spiegare l’arte, renderebbe lo spettatore pigro. L’arte si sente con il cuore, la testa e la pancia. Purtroppo lo spettatore, dopo il periodo del concettuale, ha perso fiducia nelle sue capacità di comprendere. Ma anche la pancia è intelligente. Almeno la mia lo è.
Noi, figli della perifrastica, andiamo verso una inutile semplicità. Perché?
Per resistere alla complessità si è deciso di semplificarla e questo ha prodotto stereotipi e cliché. Ma purtroppo ciò che è complicato non può essere semplificato.
Ritorniamo al suo lavoro. Come sceglie gli artisti da programmare nei festival?
Seguo gli artisti per anni prima di iniziare a lavorare assieme. Perché voglio capire la loro posizione all’interno della società e come la loro creatività si evolve nel tempo, se ci sia coerenza di valori e visioni. È importante poi considerare l’artista nel suo contesto ed è importante capire come lavora fuori dal suo territorio. E poi guardo cosa potrebbe significare il loro lavoro se fosse trapiantato in un altro contesto senza che questo diventi esotico e folkloristico. Con loro discuto su come il festival potrebbe sostenerli. È importante che l’accento sia sull’artista. Do loro anche la possibilità di tornare perché non ci sia una sola comparsata.
Nella società dei consumi chi acquista il biglietto pretende che il lavoro sia fantastico…
Ci possono essere motivi di insuccesso, o perché l’artista non ha trovato i modi per poter esprimersi oppure perché non ha nulla da dire.
Con uno sguardo ai giovani?
I grandi artisti sono noti a tutti, la domanda è: chi sono quelli di domani? E quindi come creare le piattaforme per vedere il lavoro dei giovani?
Che cos’è per lei irrinunciabile nella sua visione del mondo?
L’essenziale è capire che la prospettiva può cambiare. Guardare il bicchiere da prospettive diverse. Quanto siamo in grado di guardare il mondo con gli occhi degli altri? “Vorrei essere in grado di guardar il mondo con gli occhi di altre cento persone”, diceva Proust. Se facessimo così saremmo in grado di cogliere qualcosa di questo mondo
E chi difende il pubblico in un festival?
Il pubblico fa degli sforzi economici e organizzativi enormi. Non va trattato da imbecille.
Cosa ne pensa degli spettacoli che chiedono la partecipazione del pubblico?
Li detesto. C’è già una partecipazione negli sforzi che lo spettatore fa. È sbagliato credere che tutti siano artisti e possano salire sul palco e fare lo spettacolo. Solo pochi sono artisti. Noi, non siamo visionari, abbiamo piccole vite. E sono scioccata quando vedo grandi coreografi che mettono sul palco persone cercando di rendere le loro vite interessanti. Anche chi mette sul palco i disabili: è una forma di esibizionismo. Bisogna accettare che alcune vite siano banali e che per essere artisti ci voglia il talento, che è molto raro e in pochi possiedono. L’arte è lettura della vita, non rappresentazione della vita.
Quindi cosa devono fare i programmatori?
Lasciare spazio alla sorpresa. Rendere l’impensabile pensabile, questo è fonte di ispirazione per il pubblico.
Cosa distingue un festival da una rassegna?
L’alta presenza di artisti, una concentrazione che crea degli shock, qualcosa che si sente nell’aria. Nel festival si rompono le abitudini per gli artisti e il pubblico, gli spettacoli diventano un contesto l’uno per l’altro. La serialità ravvicinata crea una eco, si innescano meccanismi mentali. Il pubblico entra in contatto con nuovi artisti, diventa un’avventura. Si crea complicità con il pubblico, un bagno rigenerante di teatro.
Come si riconosce la qualità dell’artista?
Occorre capire chi vale la pena sia presente nel festival. Per farlo si guarda innanzi tutto all’oggettività del lavoro. Poi devo sentire la necessità da parte dell’artista di volersi far sentire con o senza di me. E poi la pancia, il fiuto, l’elemento. È un rischio, ma se non si rischia non si va da nessuna parte.
Un festival può essere anche una macchina che può uccidere…
Certo, la cosa importante è essere presenti con l’artista, anche quando può incappare in problemi. Il festival può uccidere perché presentiamo i giovani, tutti vengono a vedere l’artista ma le aspettative possono essere deluse e questo provoca la morte dell’artista.
E poi è importante saper comunicare bene il lavoro dell’artista no?
Le brochure sono un tripudio di superlativi. Dovremmo semplicemente dire: “voi siete il pubblico e vorrei farvi conoscere questa persona”. È necessario costruire un tessuto di relazione con il pubblico per capire la pertinenza del festival, la taglia ideale per esprimersi, la grandezza ideale per raggiungere il suo scopo.
Spesso nelle rassegne si ripetono sempre gli stessi nomi…
Dobbiamo smettere di relazionarci con l’istituzione pensando di essere l’istituzione. Domandiamoci invece quali sono le qualità che un artista deve avere perché cresca e possa essere riconosciuto come l’artista di domani. E poi rischiamo. Se non si rischia non si va da nessuna parte.
‒ Simone Azzoni
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