L’arte e la fabbrica delle certezze
Gettando uno sguardo alle mostre di arte antica, si nota la scomparsa delle attribuzioni, alle quali è preferita la confortevole dimensione della certezza. Forse, anche nel campo dell’arte, c’è bisogno di sentirsi rassicurati e soddisfatti del “prodotto”?
Nelle mostre di arte antica si sta assistendo alla scomparsa di un participio passato che un tempo godeva di grande fortuna: “attribuito”, scritto per esteso o vezzosamente abbreviato, nei cartellini di statue e dipinti, in “attr.”. Ed è un vero peccato, perché poche parole al pari di questa danno l’idea di come la storia dell’arte sia una scienza meravigliosamente inesatta, fondata sul dubbio e su conoscenze che si è sempre pronti a rimettere in discussione; e di come dietro l’associazione tra un’opera e un nome si celi sempre un laborioso lavoro di ricerca.
L’abolizione dell’eversiva paroletta è, inoltre, fuorviante: privata del suo bravo “attribuito”, una proposta da parte del curatore della mostra, o di chi si è occupato dell’opera nella relativa scheda di catalogo, viene messa sullo stesso piano e acquista la stessa autorevolezza di un’attribuzione certa, perché a suffragarla ci sono una firma (ritenuta autentica) o una documentazione archivistica, o perché è unanime il parere della comunità scientifica in proposito. Ma nelle mostre del terzo millennio non c’è spazio per il dubbio: occorre vendere certezze. Bisogna dire al pubblico che è venuto a vedere opere indiscutibili, non problematiche, né tantomeno dovute (orrore!) a maestri anonimi: il nome sicuro (magari famoso) è garanzia di qualità, rassicura lo spettatore in merito al fatto di avere acquistato un buon prodotto.
“L’artista al centro dell’attenzione è sempre un “protagonista” dell’arte del suo tempo, la sua produzione si mantiene sempre su livelli altissimi, le opere esposte sono invariabilmente bellissime, se non imperdibili capolavori”.
Sì, perché – come è noto – le mostre si sono trasformate da momenti di ricerca e di comunicazione consapevole in prodotti commerciali, che come tali sono chiamati ad appagare i bisogni (indotti) della clientela, e dunque a soddisfarne la domanda estetico-emotiva.
Le spie di questa metamorfosi (cui per fortuna continuano a sottrarsi coraggiosi esempi di mostre “serie”) sono numerose: accanto all’estinzione di “attribuito”, possiamo ricordare la tendenza a centrare il discorso critico sotteso alla mostra su ciò che è mobile e che si è potuto esporre, tralasciando quanto non si può spostare, come affreschi, cori intarsiati, monumenti sepolcrali (il cliente deve convincersi di aver acquistato un prodotto completo!); e la retorica autocelebrativa mutuata dal linguaggio pubblicitario, per cui l’artista al centro dell’attenzione è sempre un “protagonista” dell’arte del suo tempo, la sua produzione si mantiene sempre su livelli altissimi, le opere esposte sono invariabilmente bellissime, se non imperdibili capolavori. La soddisfazione del cliente, e non più la conoscenza e la divulgazione, è l’obiettivo delle mostre: a quando l’adozione della formula “soddisfatti o rimborsati”?
‒ Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #5
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati