Happy Winter. Un film su Palermo d’estate
Un giovane regista arriva al Festival del Cinema di Venezia con il suo film d’esordio. Un’immagine ben tratteggiata di Palermo e del suo volto vacanziero, celebrando il mito della “cabina a Mondello”. Soliti cliché? Nient’affatto. Un ritratto commosso, gentile e complesso di una società piena di chiaroscuri.
PALERMO E LA CABINA A MONDELLO. MITOLOGIE IN PELLICOLA
C’è un sottile struggimento sul fondo di questo piccolo compendio verista, intitolato alla vita dei bagnanti e a una certa “palermitudine” senza tempo. Un’eco dolceamara, che avanza mentre avanzano i minuti, confondendo disillusione e immedesimazione, poesia e antropologia; e ti ritrovi dentro a un micro mondo moderno, tratteggiato lungo la battigia e registrato con l’occhio del documentarista, ma con lo spirito del narratore.
È un docufilm, Happy Winter. Azzeccato mix tra l’arte del racconto e la presa sul reale. Un ritratto allegro, scanzonato, vivo e vero come una qualunque scena familiare spiata su una spiaggia in agosto; ma anche una pagina imbevuta di nostalgia, quella che unisce presente e passato nello scorrere sempre uguale dei giorni, delle abitudini, dei rituali: la stessa Palermo di dieci o cinquant’anni fa. Gli stessi spazi di fuga ritagliati a comando sul calendario, organizzando il tempo libero nella routine di un Dopolavoro, tra le ferie spese al lido, le gite con tutto il parentado, i tornei di scopone, le pizzate in riva al mare.
E le mitologiche cabine a Mondello. Che qualcuno chiama “capanne” e tanti pronunciano “gabine”, in una strana dolcezza dialettale che arrotonda la c in una g. Ed è già ironia, sfottò del fighetto contro il proletario. Perché nella “cabina al mare” un’intera comunità si riflette e si ritrova, in un miscuglio di snobismo, rivendicazione, memorie affettuose, distanze, eredità, reiterazioni. Minuscola icona in affitto, a prezzi popolari.
Che sia Mondello, Isola delle Femmine o Capaci, si tratta di un pezzo di DNA palermitano. Per chi in cabina ci ha passato l’infanzia, per chi c’è rimasto fino alla pensione, per chi l’ha osservata da fuori, scegliendo invece il villino, il viaggio etnico-culturale, il classico campeggio o l’agriturismo bio-vegano. Palermo resta là, scolpita nella tradizione, con le sue file di casette in legno bianche e azzurre, i bikini e le ciabatte in piazza, gli amori consumati all’ombra di un bagno serale, la tv arrangiata in spiaggia con l’antenna che non prende bene, i balli di gruppo, i dj e il karaoke, i prendisole a fiori delle madri, le anche affaticate delle nonne, i pianti dei figli lagnosi, la pastasciutta messa in tavola dai padri, le partite a briscola e le confessioni sulle sdraio, il gossip assieme ai cruciverba, la solidarietà tra vicini di cortile, l’ubriacatura di salsedine dopo gli esami e l’ultimo tramonto a settembre, prima dell’università. Una raffica di istantanee scattate nel recinto di uno stabilimento balneare, con la vita che scorre fuori, oltre la finzione della pausa feriale.
STORIE DI VITA VISSUTA IN RIVA AL MARE
Tutto questo lo racconta il giovane Giovanni Totaro (Palermo, 1988), ex allievo della Scuola del Documentario presso il distaccamento siciliano del Centro Sperimentale di Cinematografia. Happy Winter è il suo primo lungometraggio. Un inizio fortunato: cofinanziato da Mibact, SiciliaFilm Commission e Piemonte Doc Film Fund, prodotto da Indyca e Rai Cinema con Zenit Arti Audiovisive, è uno dei i titoli fuori concorso presentati alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Un bell’esempio di come si può lavorare sui luoghi comuni, immergendosi nel pop e nel pittoresco, saccheggiando cliché, costumi, tradizioni, ma nell’intelligenza di farne linguaggio, ricerca, spostamento, nota al margine. Un’occasione per cogliere altri sguardi, altre sfumature. Con leggerezza, in profondità.
Le splendide inquadrature plongée, in apertura, al centro e in chiusura, sorvolano l’area circoscritta che è il cuore del film, la sua ragione complessa e la sua logica chiara. Tutto lì dentro, soffocante e gioioso. Nel mezzo c’è un’immersione ravvicinata tra chiacchiere quotidiane, facce ed esistenze comuni, tratteggiate per frammenti e cucite in un racconto che funziona da specchio: quello che siamo, quello che (talvolta) non vediamo.
C’è l’intensa figura di Anthony, venditore ambulante di bibite ghiacciate, uomo mite, padre di famiglia, gran lavoratore: non paga le tasse, schiva i controlli, macina chilometri e s’arrangia come può, sognando per suo figlio un futuro migliore. C’è Tony Serio, candidato alle elezioni comunali col partito di Salvini, impegnato a raccattare voti tra le cabine. Temi chiave della campagna elettorale? Chiudere i campi Rom, aiutiamoli a casa loro, basta con la politica ladrona, fuori gli immigrati, potere ai cittadini. E se serve qualche cosa, basta una telefonata: c’è sempre quell’amico a cui chiedere il favore…
Ci sono le amiche super abbronzate, dai cinquant’anni in su, look da ragazzine e vite complicate: chi, pronta a licenziarsi da un lavoro detestato, sogna di mollare tutto per una meta tropicale; chi si gode i primi cinque anni di un matrimonio tardivo e arreda la cabina come la più confortevole delle alcove, dormendo per terra e facendosela bastare; chi fa coraggio al marito precario, desiderando un altro figlio e chiedendosi come sbarcare il lunario… Tutti attori non professionisti, scelti tra bagnanti veri e assolutamente perfetti in questa auto rappresentazione che odora di reportage e di romanzo sociale.
L’INVERNO CHE VERRÀ
A condire la storia con sprazzi d’inquietudine sono i vari contre-plongée, le riprese dal basso, ad altezza onde o addirittura tra i fondali, e i punti in cui il colore sfavillante dell’estate lascia spazio al crepuscolo oppure al buio, alle luci rosse della sera nel caos della festa, all’euforia del Ferragosto interrotta da chiacchiere a bassa voce e pensieri d’apprensione. La gestione della macchina da presa, la costruzione della sceneggiatura, il ritmo e le scelte di stile sono tutt’uno con la missione del film: lasciare che la mediocrità, l’incertezza, la mestizia, la paura, la precarietà e anche l’ignoranza di un’epoca allo sbando – la nostra – trapelino dalla più amena raffigurazione piccolo-borghese, coi suoi desideri, la sua allegria, i suoi orizzonti brevi.
È il volto vacanziero di una banale decadenza collettiva, tra parole come crisi, populismo, razzismo, stanchezza, antipolitica, qualunquismo. È da qui che Happy Winter si muove, da questo controscenario parallelo legato a filo doppio alla classica commedia palermitana: estate di canzonette pop, spensieratezza e birre ghiacciate, mentre lo sconforto esala come un veleno sottile, a rilascio lento.
Totaro mette insieme novanta minuti lieti, senza che scappi l’accenno moralistico, la pesantezza del giudizio, o al contrario la legittimazione pietistica, compassionevole, ruffiana. Una bella prova di scrittura e di regia, che nella tenerezza scioglie il peso della consapevolezza e il timbro della malinconia.
Con le prime folate di tramontana, i primi acquazzoni sigillati dal sole, l’inverno che verrà è già un presentimento, nel conto delle settimane che mancano al Natale, nei risparmi da rimpinguare, nel prossimo lunedì in ufficio o nell’ennesimo tuffo tra gli annunci di lavoro. “A mano a mano, ti accorgi che il vento / Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso / La bella stagione che sta per finire / Ti soffia sul cuore e ti ruba l’amore…” Con le note nostalgiche intonate da Rino Gaetano, Happy Winter è un augurio da scambiarsi sulla riva, mentre si ripongono sedie pieghevoli, stoviglie di plastica e ombrelloni. Che sia un inverno fortunato, “buon tutto e tante belle cose”.
E se non si trasloca alle Canarie o non si vince alla Lotteria, ci si rivede lì, come sempre, come ieri. Tra un anno o mezzo secolo ci sarà ancora il mare. E una cabina a Mondello di pochi metri quadri, dove mettere al riparo i sogni, le ansie, gli affetti, il male di vivere e la speranza di potercela fare.
‒ Helga Marsala
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