La Cina e la prima Biennale di Anren. Intervista a Marco Scotini
Dal 28 ottobre la Biennale di Anren farà il suo debutto nella città cinese da cui prende il nome. Marco Scotini, curatore di una delle sue sezioni, ne racconta origini e obiettivi. Regalando anche qualche anticipazione sulla prossima Biennale di Yinchuan, di cui sarà direttore.
C’è stato un discreto dibattito in merito all’ultima edizione della Biennale di Istanbul, che inaugura questo settembre. In estrema sintesi, molti si sono chiesti se gli artisti-curatori Elmgreen & Dragset non avrebbero fatto meglio a rifiutare l’incarico, vista la situazione politica in Turchia. Mi pare si tratti del solito circolo vizioso: se non si accetta, si prende una posizione netta, ma allo stesso tempo ci si priva della possibilità di incidere su quella stessa situazione che si critica. La domanda allora diventa: l’arte ha la possibilità di incidere sulla politica e sul sociale? Ti pongo questa domanda perché so che questi sono temi a te cari, e naturalmente perché anche in Cina il rispetto dei diritti umani non è esattamente prioritario nell’agenda politica.
Rispondere non è facile. Piuttosto mi verrebbe spontanea un’altra domanda: “Ma l’America rispetta i diritti umani?” È vero che là si sono aperti i Postcolonial studies, i Gender studies, ma poi è stata la prima realtà a introdurre il body scanner negli aeroporti. Riguardo alla censura, l’argomento mi è familiare. Sono appena tornato da documenta 14 dove, per due sere, ho presentato una retrospettiva dedicata ad Alberto Grifi. Si trattava di film commissionati e censurati dalla Rai alla fine degli Anni Settanta. Anche in Turchia, nel 2014, quando Vasif Kortun mi ha invitato a presentare Disobedience Archive in un’istituzione prestigiosa come SALT, la sala dedicata a Gezy Park è rimasta quasi vuota per effetto della censura. La stessa esperienza che ho fatto con Bert Theis nel quartiere Isola di Milano è stata bloccata, come è noto, da un processo di epurazione. Adesso vengo a sapere che qualche opera è ferma alla dogana cinese grazie al Dipartimento di Stato dei beni culturali. Ma si potrebbe anche aggiungere la censura indiretta che più volte mi è capitata in Occidente e che è altrettanto efficace di quella diretta.
E a quali conclusioni sei arrivato?
“Partecipare e non partecipare” possono essere entrambi posizioni valide, ma dipende dai contesti reali in cui ci si trova a operare, perché non può essere un’alternativa astratta e a priori. Né tantomeno possiamo continuare a tracciare un confine tra un’Occidente buono e un fuori “barbaro”. Ciò che attualmente è condiviso tanto dagli Stati occidentali che da Paesi come la Turchia e la Cina è di utilizzare l’arte (o la cultura) come vetrina buona in grado di legittimare quel “resto” politico e sociale che tanto buono non è. Dunque il primo passo sta per me nel rifiutare questo ruolo di vetrina, sia che si voglia aderire che sabotare.
Proseguendo su questo argomento, vorrei parlare di Ai Weiwei. Anche in questo caso, molte critiche riguardano il suo ruolo di artista-architetto che ha subito una repressione politica, ma che avrebbe saputo farne letteralmente tesoro. In che termini si parla di Ai in Cina? Perché ho l’impressione che quello appena citato sia un punto di vista molto occidentale.
Sì, l’Occidente ama molto e valorizza all’ennesima potenza i dissidenti degli altri Paesi, ma non i propri. Sa comunque monetizzare su tutto e quindi non mi stupiscono la ricchezza e la notorietà mediatica di Ai Weiwei. In Cina, ho incontrato molti suoi amici che lo stimano molto anche per la sua fuoriuscita. Loro, al contrario, possono difficilmente esporre e sono altrettanto lontani dal fare commercio del loro aperto dissenso.
Spesso la nostra conoscenza della realtà cinese si limita a Pechino e Shanghai, arrivando in rari casi a comprendere altri centri urbani come Shenzhen. Tu stai curando una sezione della prima Biennale di Anren. Qual è stato l’impatto con la Cina meno nota in Occidente?
La scoperta del Sichuan è stata straordinaria. Avevo conosciuto la Rent Collection Courtyard nel 1999 attraverso il Leone d’oro che ha vinto Cai Guoqiang, ma non mi aspettavo di ritrovare la grande scultura di oltre 100 pezzi proprio nell’antica citta di Anren, dove avrà sede la Biennale. Solo dopo, mi sono accorto di quanta letteratura sul Sichuan era stata scritta dagli occidentali, da Victor Segalen a Sergey Tretyakov fino a Bertolt Brecht. Mi sono appassionato a questa piccola cittadina, totalmente conservata dalla sua nascita nel 1920, e a pochi minuti da Chengdu, che conta 15 milioni di abitanti. Credo che lavorare a Shanghai mi sarebbe interessato di meno, soprattutto per le mie ricerche di tipo antropologico, storico e sociale.
Come si sta strutturando il lavoro? La direzione della Biennale nel suo complesso è affidata a Lu Peng (qui lo conosciamo principalmente per il monumentale A history of art in 20th century China, edito da Charta nel 2010), mentre le singole sezioni sono curate – oltre che da te – da Lan Qingwei/Du Xiyun, Liu Ding & Carol Lu Yinghua, Liu Je & Lu Jing. Insomma, sei l’unico non cinese nello staff di direzione. Raccontaci come sta andando.
Il titolo che Lu Peng ha dato alla biennale è Today’s Yesterday, e quindi per il fatto di voler guardare alla memoria e alla storia era perfettamente nelle mie corde. Le altre tre sezioni sono internamente cinesi, ad eccezione di quella curata da Liu Ding e Carol Lu Yinghua, che parte da una rivista degli Anni ‘30 di Lu Xun e da un film realista degli stessi anni di Shen Xiling e include artisti come Paul Chan, Daniel Garciá Audújar, Marina Gioti, Jos de Gruyter & Harald Thys, tra gli altri. Ci saranno oltre 120 artisti e la location è una ex-fabbrica di 20mila mq che in questi giorni stanno ultimando di trasformare in polo museale. Però hai ragione. Oggi, nella prima conferenza stampa per i giornalisti della Cina, ho detto che mi sentivo un po’ come Marco Polo alla corte di Kublai Khan visto che ero l’unico occidentale tra centinaia di cinesi.
La tua sezione è intitolata The Szechwan Tale: Theatre and History e lavora su due direttrici: la pièce di Bertolt Brecht, L’anima buona di Sezuan e la Rent Collection Courtyard del 1964. Qual è il concept e come lo hanno interpretato gli artisti che hai invitato?
Sono partito da queste due opere perché entrambi mi riportavano al teatro e a uno spazio virtuale e fittizio che è quello delle proiezioni dell’Occidente verso l’Oriente, nel caso di Brecht e viceversa nel caso di quel monumento della rivoluzione culturale che è la Rent Collection Courtyard. Questo complesso plastico guarda al realismo occidentale mentre Brecht guarda la stilizzazione orientale come punto di partenza del suo concetto di “estraniamento”.
Un’ultima domanda per guardare ancora più avanti: nei prossimi mesi sarai di nuovo in Cina, questa volta alla direzione vera e propria di una Biennale. Qualche anticipazione.
La seconda Yinchuan Biennale si aprirà a giugno ma il contesto è nettamente diverso da quello di Anren e sembra di essere in un altro mondo. Nel Sichuan c’è il Yangze (o Fiume Azzurro), un’atmosfera tropicale, le scimmie e il buddismo tibetano. A Yinchuan, invece, c’è il Fiume Giallo, il deserto, i cammelli e l’Islam. Eppure la Cina è sempre la stessa con il suo mito di una storia unica, che attraverserebbe cinque millenni. Vediamo cosa ne uscirà ma forse cercherò proprio di decostruire questa presunta unitarietà.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Anren // dal 28 ottobre 2017 al 28 febbraio 2018
Anren Biennale
NING LIANG OLD FACTORY
350 Yingbing Road
www.anrenbiennale.org
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