Identikit delle grandi mostre
Quali caratteristiche devono possedere le cosiddette “grandi mostre”? Tutto dipende dalla presenza di “grandi artisti” o entrano in gioco anche altre componenti? Ecco qualche spunto di riflessione.
Ci sono grandi mostre e grandi mostre. Non tutte sono uguali. Ci sono mostre che sono “grandi” perché nascono tali, sono le blockbuster, quelle che fanno il giro del mondo. Poi ci sono le mostre che “grandi” lo diventano, perché riescono a convincere critica e visitatori o perché sono portatrici sane di un’innovazione che stupisce e richiama. Ovviamente queste mostre sono più rare, sono punte di iceberg che lasciano intravedere l’emersione di artisti e curatori che animano lo sconfinato oceano del settore artistico contemporaneo (odierno). Sbaglia però chi, con un atteggiamento un po’ snob, assume una posizione molto critica nei confronti delle prime. Per realizzare una mostra che “nasce grande” c’è bisogno di professionalità, esperienza e di qualità curatoriale. Perché non bastano gli ingenti investimenti a rendere una mostra una mostra di successo. Nell’arte, per fortuna, non esiste il concetto too big to fail.
La presenza di un artista famoso non rende la mostra necessariamente un successo, anche se aiuta. Ma non è un segreto che il valore del brand sia ovunque. Il brand ci aiuta a comprendere e ad apprezzare, anche quando non abbiamo elementi necessari per identificare il valore di un prodotto o di un’opera d’arte. Michelangelo, Leonardo, Jeff Koons, Marina Abramović, Mimmo Rotella, Picasso, van Gogh, Klimt ecc. sono tutti dei brand. In giro però di brand ce ne sono tanti, e spesso mostre di artisti celeberrimi vengono presentate contemporaneamente nelle stesse città.
“Per realizzare una mostra che “nasce grande” c’è bisogno di professionalità, esperienza e di qualità curatoriale. Perché non bastano gli ingenti investimenti a rendere una mostra una mostra di successo”.
È pacifico affermare, dunque, che il solo brand non basti. Come è pacifico affermare che neanche la qualità del progetto curatoriale ed espositivo (che qui viene data per scontata) costituisce, da sola, un fattore critico di successo, quantomeno in un mercato di riferimento come quello italiano, dove il consumo culturale non è molto elevato. I dati sulle visite ai luoghi della cultura hanno una grande implicazione sotto il profilo dei consumi: perché le persone visitino “in massa” una mostra è necessario che questa diventi un fenomeno. È il caso di The Floating Piers che, secondo The Art Newspaper, è stata l’opera d’arte più vista al mondo nel 2016, o il caso della Ragazza col turbante di Vermeer a Bologna.
Per quanto critici e cultori possano storcere il naso, quello che determina lo scarto tra una grande mostra e il grande successo in termini di visitatori non attiene nemmeno alla componente artistica. Le dinamiche di afflusso di Christo, Vermeer o Real Bodies (altro grande esempio di mostra per numero di visitatori) hanno più punti di contatto con i “mega-event” (ovviamente in scala ridotta) che con il comparto museale. Sono eventi che un tempo avremmo definito “pop”, un must-visit per chiunque (a prescindere dalla frequenza dei consumi culturali).
LE DIFFERENZE
Questo comporta differenze in termini anche gestionali: dalle tecniche di comunicazione al rapporto con il territorio, dai percorsi didattici agli eventi “off” alla gestione dei flussi di visitatori. Chi vuole organizzare grandi mostre in Italia deve avere ben chiare queste caratteristiche e le caratteristiche delle persone cui il prodotto culturale è rivolto e che spesso, ci piaccia o meno, non sono quelle che visitano i musei.
‒ Stefano Monti
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #5
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